Mori e De Donno, avete ragione! Ma mi restano due domande per voi

  • Postato il 16 aprile 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ammettiamo per un momento che voi, generale Mori e colonnello De Donno, abbiate ragione: la causale della accelerazione della strage di Via D’Amelio è da cercarsi nell’urgenza di impedire a Paolo Borsellino di prendere in mano il rapporto “mafia-appalti”, perché se Borsellino lo avesse fatto avrebbe sicuramente rinvenuto i fili che legavano il “nido di vipere” (parte della magistratura palermitana) con gli imprenditori siciliani collusi (“Buscemone”-Salamone&C.), con gli imprenditori “nazionali” (gruppo Ferruzzi), i quali direttamente o indirettamente concorrevano tutti alla “tangentopoli” siciliana, meritandosi per ciò ed a detta vostra l’accusa di 416 bis, perché tutti consapevolmente protagonisti non semplicemente di un sistema corruttivo, ma di un vero e proprio sistema mafioso.

La “tangentopoli” siciliana, infatti, a differenza di quella scoperchiata da Antonio Di Pietro a Milano, aveva la peculiarità di comprendere tra gli attori permanenti proprio Cosa Nostra, per questo ribattezzata “mafiopoli”. Una peculiarità che l’avrebbe resa capace anche della strage del 23 Maggio (furgone targato Ravenna, cantiere in autostrada).

A questa ammissione, bisogna però accostarne un’altra, ancor più pacificamente accettata ed accertata: dopo la strage di Capaci (23 maggio 1992) il governo (Andreotti presidente, Martelli, Scotti ministri) vara il Decreto Legge N. 306 (8 giugno 1992), che contiene norme devastanti per Cosa Nostra, per le altre mafie e per tutti i soggetti collusi, in particolare imprenditori e politici. Sì, perché il decreto legge non contiene “soltanto” come spesso superficialmente viene ricordato, il comma 2 del 41 bis O.P. (cioè il carcere “duro” per i mafiosi), ma introduce nel Codice Penale il “voto di scambio politico mafioso”, rafforza le tutele per i collaboratori di giustizia, stringe ulteriormente le viti del 4 bis O.P. (divieto di accesso ai benefici carcerari per i mafiosi che non collaborano), potenzia le misure di prevenzione patrimoniali, precisa i poteri del Procuratore nazionale antimafia, istituisce la Commissione di inchiesta parlamentare antimafia… Insomma: un terremoto!

Ma il Decreto Legge dopo essere stato varato non “cammina” anzi è arenato in Parlamento, le settimane passano e il rischio della sua decadenza è più che concreto. Salvatore Riina lo sa e pur immaginando che realizzare l’attentato di Via D’Amelio avrebbe “rivitalizzato” il decreto legge, provocandone la conversione in legge, procede senza esitazioni, sentendosi talmente sicuro del fatto suo da rassicurare i suoi dicendo che, come riportato nella sentenza del Borsellino Ter, “la strage Borsellino sarebbe stata alla lunga un vantaggio per tutta Cosa Nostra”.

Mettendo insieme queste due ammissioni, arriviamo alla questione: le rassicurazioni sui benefici di lungo termine per Cosa Nostra a Riina chi le avrebbe date? Rassicurazioni così granitiche da far superare a Riina ogni prudenza tattica rispetto al Decreto Legge 306? I magistrati del “nido di vipere”? Il “Salamone”? I “Ferruzzi”? Questi sono i soggetti che avrebbero avuto la forza di spingere Riina all’attentato contro Paolo Borsellino e la sua scorta? Francamente non è credibile!

I protagonisti di “mafiopoli” saranno di lì a poco tutti processati e condannati grazie al lavoro della Procura di Palermo guidata da Gian Carlo Caselli, come puntualmente documentato dalla relazione depositata proprio in Commissione Antimafia dal medesimo procuratore il 3 febbraio del 1999. Un documento che illumina l’azione senza compromessi della Procura ed anche aspetti inquietanti del comportamento del Ros dei Carabinieri. Salvatore Riina stesso era stato arrestato il 15 gennaio del 1993 e Raul Gardini morirà suicida il 23 luglio del 1993.

Ed i referenti politici di questa “mafiopoli” quali sarebbero stati? Quali sarebbero stati cioè i “garanti” ultimi, di caratura “romana”, di questo sistema di potere capace di “entrare in borsa” (cit. Falcone) attraverso la Ferruzzi, capace di spartirsi i mille miliardi degli appalti SIRAP in Sicilia (ed era “soltanto uno dei filoni” cit. De Donno), capace di far saltare in aria strade ed autostrade con una perizia militare da fare invidia al Navy Seal? Ubbidendo alla lezione falconiana, per rispondere dovremmo ancora una volta “seguire i soldi”. Quali? Quelli del Gruppo Ferruzzi a questo punto.

Ci imbatteremmo così nella “madre di tutte le tangenti”, la tangente Enimont, e nel cascame di finanziamenti illeciti a favore di politici di belle speranze profusi dal medesimo gruppo (Carlo Sama ne parla in un curioso libro dal titolo La caduta di un impero).

Tra i beneficiari di quel flusso di denaro troveremmo allora lui, il “vice Re” di Andreotti in Sicilia, Salvo Lima, che a detta di Antonio Di Pietro, il quale ne riferì deponendo al processo “Trattativa”, fu destinatario di una parte della tangente, sebbene non ritrovata. Ma potremmo mai pensare che fosse Salvo Lima il “tutore” di Riina in quella fase? Di certo no, perché Riina aveva già deciso di ammazzarlo il 12 marzo del 1992, come a sancire la rottura con quel pezzo di potere egemonico in Sicilia per decenni. E chi altri?

Non resterebbero che i vertici del Partito Socialista, l’unico a competere in quegli anni con il potere della DC, se ne era certamente accorto pure lei generale, quando, da comandante del Gruppo Carabinieri Palermo 1, aveva “letto” il significato del voto delle politiche del 1987. Ma non Bettino Craxi, che in realtà in quel periodo aveva già imboccato il viale del tramonto come acutamente ci suggerisce di nuovo lei, generale, che ne ha scritto nel suo libro Nome in codice Unico: la parabola di Craxi andò in picchiata a partire dall’Ottobre del 1985, dopo lo “sgarbo” di Sigonella.

Ma allora, generale, se può, mi spieghi una cosa: avendo lei intuito la “tangentopoli” siciliana con “anni di anticipo” (cit. Di Pietro) rispetto al pool di Mani Pulite a Milano, avendo compreso che la strage di Capaci prima e poi quella di Via D’Amelio erano state decise all’interno di questo congegno criminale impastato di vipere, “nipotini”, calcestruzzo, cretini (che sono “peggio dei cattivi” cit. Mori) e soldi pubblici, perché quando inizierà ad incontrare Vito Ciancimino, dopo la strage di Capaci, sollecitando “ambasciate” (“cosa vogliono per finirla con questo muro contro muro” cit. Mori) informò Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia e non direttamente Paolo Borsellino?

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Il Fatto Quotidiano

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