Metti una sera a cena in teatro con le Ariette
- Postato il 19 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Il legame fra teatro (o, più ampiamente, spettacolo) e cibo è antico, addirittura originario, nella nostra civiltà (come in altre, per la verità). Basterebbe pensare alle feste in onore di Dioniso che fanno da contesto (e forse da matrice) alle rappresentazioni tragiche e comiche nell’antica Grecia.
L’importanza, nella cultura occidentale, del rapporto di lungo periodo fra mangiare e assistere a uno spettacolo è tale che, agli inizi del Cinquecento, un autore spagnolo avallò la derivazione di “comedia” da “comer”, falsa etimologicamente ma fino ma un certo punto. Infatti, per secoli fu pratica consueta in tutta Europa quella di inframezzare tra una portata e l’altra dei banchetti interventi performativi di buffoni, musici, canterini. Anche se la rappresentazione teatrale vera e propria costituì sempre un momento autonomo, che precedeva o seguiva il banchetto, in un’altra sala o anche nella stessa.
Il nascere dei teatri pubblici a pagamento, a partire dal Seicento, gradualmente allenta questo legame, senza mai cancellarlo del tutto. Com’è noto, nei palchetti dei teatri dell’Opera si faceva di tutto, compreso mangiare e bere in abbondanza (in particolare nel nostro Paese). E nella seconda metà dell’Ottocento, emergono luoghi e generi appositi, il Café Chantant e il Café Concert, per rilanciare questo antico connubio, declinandolo secondo nuove forme di socialità.
Esiste, in provincia di Bologna, una piccola compagnia teatrale, le Ariette, che da venticinque anni, ormai, ha fatto del rapporto fra il mangiare e il partecipare a uno spettacolo il suo marchio di fabbrica. A partire dal lavoro che li lanciò, Teatro da mangiare?, che ha superato nel frattempo la soglia stupefacente delle mille repliche. Tanto vale chiarire subito che il “teatro da mangiare” delle Ariette ha poco a che vedere con l’annoso precedente del Café Chantant.
In realtà mi fa pensare di più, per un verso, all’agape fraterna dei primi cristiani, che si concludeva con la condivisione del pane e del vino, in ricordo dell’Ultima Cena. Per altro verso, a seconda delle scelte artistiche della serata, mi viene da associarlo a una cave esistenzialista della Rive Gauche, degli anni Cinquanta-Sessanta, o a un locale Off-Off Broadway a New York, come il Café La Mama.
Ma fondamentalmente è come andare a cena (o a pranzo) a casa di amici, dove lo possono diventare anche quelli che non si conoscevano prima. Perché – lo sappiamo – non c’è niente che avvicini gli esseri umani come la condivisione di un po’ di semplice cibo. “Compagno” (dal latino medievale cum-panis) è colui con cui hai spezzato il pane.
Con il primo spettacolo, le Ariette (cioè Paola Berselli e Stefano Pasquini, a lungo con Maurizio Ferraresi) inventarono quasi per caso un prototipo, sostanzialmente consistente in una doppia drammaturgia parallela: la preparazione delle pietanze (in particolare le leggendarie tagliatelle vegetariane), da un lato, e le azioni teatrali (canzoni, poesie, gag, racconti, soprattutto racconti), dall’altro, ma a carico degli stessi performer, loro due (per molti anni assieme Maurizio).
Da allora, questo prototipo (che ha raccolto vasto successo anche all’estero) lo hanno riproposto e variato in tanti modi, a cominciare dal menù. Una volta, al festival di Santarcangelo, il processo cominciò addirittura mesi prima con la semina del grano in un terreno della zona. In qualche caso sono intervenuti anche i loro amati animali, spesso protagonisti dei racconti, insieme alla vegetazione e alle colture del casale-teatro al Castello di Serravalle.
Nel tempo è venuto progressivamente in primo piano il lungo rapporto di coppia, nella vita e nell’arte, che unisce Stefano e Paola e il loro legame sempre più profondo col mondo naturale in cui hanno scelto di vivere, lavorando la terra e accudendo le bestie da veri contadini, sia pure poeti e performer. Non da artisti di città che “giocano” a fare i contadini.
Nell’ultimo evento, Noi siamo un minestrone (all’ex Oratorio San Filippo Neri, 3 maggio), la pietanza evocata nel titolo arriva alla fine come una specie di ricompensa per la partecipazione degli spettatori (una parte) alla preparazione del piatto: versare l’acqua nel pentolone, sbucciare le patate, tagliare le verdure, etc. Tutto esclusivamente mimato, senza attrezzi e senza verdure, soltanto con una ciotola vuota che ognuno di noi potrà infine riempire della calda zuppa.
Come dire che a teatro possono ancora succedere piccoli miracoli, se ci crediamo davvero. E forse anche fuori dal teatro, se ci ricordassimo un po’ più spesso di ciò che siamo ancora, nonostante tutto: esseri umani, disperatamente alla ricerca di un po’ di amore e felicità in un mondo in macerie.
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