María Moreno e Christine Anne Foley: serial killer, fotogrammi dell’orrore e società

  • Postato il 19 settembre 2025
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L’atroce storia di Santos Godino. El Petiso Orejudo, di María Moreno (traduzione di Francesca Lazzarato; Edicola), è uno spaccato sulla società argentina, l’immigrazione e la mostruosità umana. Nel 1912, la vasta e oscura Buenos Aires era un crogiolo di speranza e miseria. Qui, Cayetano Santos Godino, figlio di immigrati italiani indigenti, fu arrestato all’età di sedici anni, accusato di undici crimini. La sua storia, raccontata magistralmente in un libro che fonde cronaca, saggio e romanzo, non è solo quella di un criminale leggendario, ma anche un atto d’accusa contro una società che respinge con violenza ogni forma di alterità, demonizzando e punendo chi vive ai margini.

L’autrice si immerge senza timori nel caso di Godino, il primo serial killer della storia argentina, una delle figure più enigmatiche della criminologia. Su di lui, polizia, medici legali, psichiatri e stampa hanno indagato a lungo, senza mai trovare una risposta rassicurante a quel labile confine tra disagio, follia e crimine.

Oltre settant’anni dopo la sua morte in una prigione gelida ai confini del mondo, la giornalista e scrittrice María Moreno riapre il caso, dando vita a un testo ipnotico, violento e travolgente. Questo libro trascende il genere del true crime, diventando al contempo una storia di immigrazione e miseria, un reportage crudo dell’epoca e una riflessione sugli archetipi universali del crimine.

Il libro ci dice che il “Petiso Orejudo” non è un semplice mostro. La sua storia ci costringe a guardare in faccia una realtà scomoda: il male non nasce dal nulla, ma è spesso il prodotto di un ambiente crudele e indifferente. Ci spinge a chiederci, inoltre, quanto la società sia responsabile dei mostri che genera. Le sue azioni sono il sintomo di una malattia sociale più profonda, un riflesso della miseria e della violenza che lo hanno circondato fin dall’infanzia. La storia di Godino ci ricorda che la giustizia non è solo punizione, ma anche comprensione delle cause che portano al crimine.

Bodies, di Christine Anne Foley (traduzione di Gaia Baldassarri; Blu Atlantide), è un’immersione profonda e disturbante nell’orrore quotidiano, un’opera che cattura per la sua scrittura chirurgica e la sua capacità di esplorare le fragilità della condizione umana. Lontano dal sensazionalismo, l’autrice costruisce una narrazione che scava nelle ferite invisibili, quelle che logorano l’anima e il corpo, lasciando il lettore in uno stato di costante inquietudine. Una prosa minimalista e tagliente, un linguaggio scarno ma incredibilmente evocativo che apre paragoni con Virginie Despentes e Annie Ernaux.

La narrazione procede per brevi frammenti, quasi fossero scatti fotografici, che compongono un quadro desolante ma straordinariamente lucido. Non c’è spazio per il superfluo: ogni parola è misurata, ogni frase ha il peso di un macigno. Questa economia di mezzi crea un’atmosfera opprimente e allo stesso tempo intensamente poetica, dove la violenza non è mai esplicita, ma sempre percepita, come un’ombra incombente. Il romanzo rivolge alla società contemporanea e, in particolare, alla mercificazione del corpo una critica feroce. I personaggi di Bodies sono fantasmi, figure intrappolate in lavori alienanti, in corpi che non sentono più come propri, usati e abusati da un sistema che li riduce a pure entità produttive.

La violenza non è solo fisica, ma sistemica. È la violenza del capitalismo che svuota le persone di ogni valore, che le rende oggetti usa e getta. L’autrice sviscera con maestria la relazione malata tra corpo, identità e lavoro, mostrando come l’ansia, la solitudine e il vuoto esistenziale siano le vere piaghe della nostra epoca.

Bodies è un romanzo potente, un esordio che non teme di affrontare temi difficili con una scrittura coraggiosa e intransigente. È una lettura che lascia il segno, un’opera che ci costringe a riflettere sul nostro rapporto con il corpo, con gli altri e con una società che ci spinge costantemente al limite.

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Il Fatto Quotidiano

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