Lussuria di Carnevale ogni bagordo vale

  • Postato il 27 febbraio 2025
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Il Quotidiano del Sud
Lussuria di Carnevale ogni bagordo vale

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Lussuria, scambi di ruolo, eccessi, sberleffi e dissacrazione di ogni potere perché una volta all’anno, a Carnevale, è lecito impazzire. Dai Saturnali della Roma antica alle Dionisie della Grecia: un rito liberatorio e trasgressivo per mascherare le angosce di tutti i giorni


Giù la maschera alla baldoria senza tabù che dura da secoli. A Carnevale il re è nudo, il servo mette la corona, lo schiavo è padrone, il padrone è schiavo, il vecchio è giovane e il giovane è vecchio, l’amore casto si concede uno sberleffo alla virtù e al pudore e quello passionale finge pudicizia e ritrosia. La donna si veste da uomo e viceversa. Licenze concesse tra il serio e il faceto, eccessi anche a tavola e danze sfrenate. Maschere e scambi di identità. Vale (quasi) tutto. Vale soprattutto il motto “semel in anno licet insanire”: una volta l’anno è lecito impazzire.

E quando se non a Carnevale? La festa mobile che sul calendario precede la Quaresima a cui è legata l’etimologia del nome che deriva da carnem levare, (privarsi della carne) «riferito in origine al banchetto d’addio alla carne, che si celebrava la sera innanzi il mercoledì delle Ceneri» (Migliorini-Duro). Tutti d’accordo? Non proprio c’è chi riconduce l’etimo al carrus navalis, alla dea Iside e alla “nave su ruote” nella quale venivano rappresentate le forze del caos, prima della creazione dell’universo. Gli indizi sull’uso del termine riportano anche ai testi del giullare Matazone da Caligano alla fine del XIII secolo e agli scritti intorno al 1400 del novelliere Giovanni Sercambi.

A dispetto dei tempi moderni, il Carnevale ha origini antichissime. Rimanda ai Saturnali della Roma antica o alle Dionisie greche durante le quali si scioglievano come neve al sole, obblighi e gerarchie sociali. Si sovvertiva l’ordine costituito e ci si dava allo scherzo e alla dissolutezza. Il caos a braccetto della trasgressione, insomma. Bacco, menadi e satiri: tutti invitati al banchetto dei sensi durante le Antesterie, le feste celebrate in onore di Dioniso nato da Zeus e da Semele figlia di Cadmo che al piacere del vino (e non solo) univano auspici e cambianti annunciati dal “fiorire primaverile” di Antesterione. Era chiamato così l’ottavo mese a cavallo fra febbraio e marzo nel calendario dell’antica antica Atene.

Tracce di una festa simile al Carnevale, però, le si trovano prima ancora a Babilonia. Qui durante l’equinozio di primavera si svolgeva un maestoso corteo durante il quale sfilavano i carri del sole, della luna e dei segni zodiacali. In pratica gli antenati dei carri allegorici.
Ma il carnevale dell’antichità più vicino a noi, secondo alcuni rimanda ai Saturnali romani in cui veniva rievocata l’età dell’oro dell’umanità quando regnavano felicità, tranquillità e abbondanza. Durante i festeggiamenti si eleggeva anche il Rex Saturnaliorum, il re dei Saturnali. Una sorta di “re del carnevale”, pantomima di un’autorità burlesca che personifica la festa e che appare ancora oggi in molti carnevali.

Passeggiando nel tempo si perde il carattere magico e apotropaico degli antichi riti pagani ma resta la festa che precede la Quaresima. Bagordi e scherzi per il primo, penitenza e digiuno per la seconda. Una rappresentazione esemplare la si trova in un quadro di Pieter Bruegel il Vecchio. Datato 1559 è conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Si chiama La Lotta tra Carnevale e Quaresima (1559). Così è descritta: «La brulicante veduta della piazza di un paese mette in scena un combattimento simbolico tra il Carnevale (metà sinistra) e la Quaresima (metà destra).

Il primo è rappresentato come un uomo grasso a cavallo di un barile e circondato da succulente pietanze, mentre la seconda è una donna smunta e pallida, che ha come “lancia” una pala con appena due aringhe, a fronte dello spiedo con polli infilzati del rivale. Il Carnevale è spinto da due uomini in maschera, mentre la Quaresima è trainata da un frate e una monaca…».
Parente stretto del Carnevale, invece, è la festa dei folli o festa degli innocenti. Un Carnevale in maschera in stile medioevale simile a quello moderno. La festa dei folli compare anche nel romanzo “Notre Dame de Paris” di Victor Hugo .
Tra storie, leggende, bagordi, caroselli e carri il Carnevale ha attraversato i secoli. Su e giù per la Penisola.

A Firenze, tra ‘400 e ‘500, col favore dei Medici si organizzavano grandiose sfilate di carri, accompagnati dai “canti carnascialeschi” che inneggiavano ai piaceri della carne. La Canzona di Bacco, ad esempio, composta nel 1490 da Lorenzo il Magnifico signore di Firenze descrive il dio del vino che avanza con la sposa Arianna, seguito da satiri, ninfe e altri personaggi. Fa così: “Quant’è bella giovinezza,/ che si fugge tuttavia!/ Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza…”. A Bologna, invece, Giulio Cesare Croce (1550-1609), autore di Bertoldo, compone scritti burleschi per la festa, mentre a Roma non mancano spettacoli come la corsa dei barberi: i cavalli senza fantino.
Per il Carnevale di Fano viene ricordato un documento ufficiale del 1347 in cui sono descritti con dovizia di particolari i costi dei primi festeggiamenti. C’è chi lo colloca come diretto discendente dei Saturnalia latini e delle Dionisiache greche.

Tra i carnevali storici non mancano quelli di Putignano (1394), Acireale (1594), Cento (1615) e Ivrea con la sua storica battaglia delle arance.
A fare la parte del leone è la Serenissima. Venezia e il suo grandioso Carnevale entrano nella Storia. In laguna l’abitudine di girare in maschera per campi, campielli e calli diviene un rituale diffuso. Il primo documento ufficiale che lo trasforma in festa pubblica risale al 1296 quando il Senato della Repubblica veneziana dichiara festivo il giorno precedente la Quaresima. Ancor prima, in un atto del Doge Vitale Falier del 1094, si parla di divertimenti pubblici e il vocabolo Carnevale viene citato per la prima volta. Una festa nata non per caso.

«L’ istituzione del Carnevale da parte delle oligarchie veneziane è generalmente attribuita alla necessità della Serenissima, al pari di quanto già avveniva nell’antica Roma, di concedere alla popolazione, soprattutto ai ceti sociali più umili, un periodo dedicato interamente al divertimento e ai festeggiamenti, durante il quale i veneziani e i forestieri si riversavano in tutta la città a far festa con musiche e balli sfrenati», è stato scritto. Forse perché, a ricordare Giovenale, «populus duas tantum res anxius optat: panem et circenses» (il popolo due sole cose ansiosamente desidera: pane e giochi circensi). È nel Settecento che il Carnevale di Venezia raggiunge il suo massimo splendore, conquistando fama in tutta Europa.

Non solo frizzi, lazzi e coriandoli, se c’è un simbolo di cui il Carnevale non può fare a meno è la maschera. Assicura l’anonimato, occulta l’identità, favorisce lo scherzo e l’inganno, funge da lasciapassare anche quando la presa in giro è all’indirizzo dei potenti di turno. Laici e religiosi. Aristocratici e borghesi. Buoni e cattivi. Furbi e ingenui. Ed è attraverso le maschere che si celebre il felice e longevo matrimonio con la Commedia dell’arte e i suoi popolari e amati personaggi. Dal teatro alla festa e viceversa, poco importa.

È la piazza, abitata da un’umanità variopinta, a vincere: racconta e si racconta sotto mentite spoglie con le maschere che diventano lo sberleffo popolare al potere, antenate della satira da osteria. I ritratti sono noti: Arlecchino il servo imbroglione di origine bergamasca, Pantalone il magnifico anziano mercante veneziano, la maliziosa Colombina, Brighella servo furbo e con pochi scrupoli, il dottor Balanzone avvocato bolognese non certo esempio di umiltà. Si potrebbe continuare senza dimenticare Pulcinella, la maschera napoletana per eccellenza.

Il Carnevale con la sua magia fatta di effimero (apparente) coriandoli e stelle filanti, i suoi riti e i suoi simboli, le sue maschere e i suoi costumi, le stranezze e le licenze è diventato anche il soggetto di diversi capolavori della Storia dell’Arte. Eccone alcuni in una galleria incompleta. Di Bruegel il Vecchio e La Lotta tra Carnevale e Quaresima si è già detto, ma non si possono non ricordare: Un ballo in maschera in Boemia (1748) di autore sconosciuto ospitato al Met di New York, Il Ridotto in Venezia (1750) di Pietro Longhi, La sepoltura della sardina (1812-1814 circa) di Francisco Goya, Sera di Carnevale (1886) di Henri Russeau, il Martedì grasso di Cézanne (1888) il Carnevale di Arlecchino di Mirò (1925), Paulo vestito da Arlecchino (1924) di Picasso e il Carnevale notturno di Marc Chagall (1963).

Ma qual è il segreto o i segreti della lunga vita del Carnevale? Forse che dietro la maschera ci finiscono anche i chiaro scuri della vita e dell’animo umano? Forse che un suono malinconico si mischia al fragore della festa? Difficile rispondere, mentre viene in mente il terzo atto de La Traviata di Giuseppe Verdi quando Violetta muore mentre «Tutta Parigi impazza… è carnevale…».
La vita, la morte. Le lacrime e il riso. Quel riso a cui «si attribuiva il potere di sconfiggere la morte e il lutto e già tradizioni antichissime lo collegano alla fertilità della natura e degli uomini», ricorda l’antropologa Cecilia Gatto Trocchi su Treccani in un approfondimento dedicato al Carnevale.

E proseguendo: «nei miti dei misteri eleusini, la grande cerimonia religiosa della Grecia antica in onore di Demetra, la dea, che ha perduto la figlia Core, non ride più e tutto il mondo rischia la morte: non nascono né fiori, né piante, né animali, né umani. Finalmente una servetta fa ridere la dea facendo un gesto volgare e tutto rinasce e fiorisce».

A voler pure dar retta a un antico papiro: «Dio rise e nacquero i sette dei che governano il mondo. Al primo scoppio di risa apparve la luce. Scoppiò a ridere la seconda volta e apparvero le acque, con successive risate vennero al mondo Hermes, il Destino e Psiche».
Fatto sta che a Carnevale anche il detto “Risus abundat in ore stultorum” (Il riso abbonda sulla bocca degli stolti), non vale.

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