Love dei Cult compie quarant’anni: un disco invecchiato bene

  • Postato il 18 ottobre 2025
  • Blog
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 1 Visualizzazioni

Il 18 ottobre 1985 usciva Love dei Cult. Quarant’anni. Un disco che non si è limitato a raccontare il proprio tempo, ma l’ha forgiato. Fu tra il 1984 e il 1985 che la cosiddetta musica dark uscì davvero dall’ombra. Non parlo dei Joy Division, e nemmeno dei Cure, da cui tutto – o quasi – ha avuto origine sul finire della decade precedente. Parlo di una mutazione estetico-musicale divenuta costume, linguaggio, appartenenza: il suono, in quel preciso momento, è divenuto forma, codice, identità. E Love ne fu una delle traduzioni più lucide, la sintesi istintiva di un tempo divenuto maturo.

Nei consueti nove punti di questo blog voglio provare a decifrarlo — celebrando quel disco e il tempo che lo ha reso grande.

1. Il processo
Tra il 1984 e il 1985 movimenti tellurici di natura musicale agitarono il sottosuolo europeo. Da quelle scosse nacquero mutazioni in divenire. Quello che in Italia sarebbe stato definito “dark”, in Inghilterra era già percepito come un processo più profondo, in cui la musica smetteva di essere solo linguaggio per farsi esperienza totale: estetica, sensoriale, identitaria. Se il punk aveva urlato per espellere il mondo, il dark fece l’opposto: lo assorbì, lo interiorizzò, ne trasformò la rabbia in coscienza.

2. Il suono
Dentro Love tutto ruota intorno al dialogo tra sezione ritmica e chitarra. Billy Duffy costruisce muri di suono, mentre il basso di Jamie Stewart incide ossessivamente un tratto, quasi rituale. Alle batterie si alternano tre presenze: Nigel Preston, autore delle prime tracce, Mark Brzezicki, chiamato per le registrazioni principali, e Les Warner, che ne erediterà l’energia dal vivo. Ian Astbury non canta: orienta la voce come fosse uno strumento, un tramite. Il suono procede per tensione e rilascio, per stratificazioni e aperture. Nessuna nota sprecata, ogni cosa al suo posto.

3. Il codice
Love traduce con precisione l’esigenza di un tempo musicale ormai definito. Arriva nel momento esatto in cui l’oscurità smette di essere linguaggio di nicchia e diventa una necessità collettiva — non ancora mainstream, ma diffusa. Forse, paradossalmente, non apre un’epoca: la chiude. Quella nata dal punk, evolutasi sotto molte forme e giunta qui al suo compimento inevitabile. Quel che verrà dopo resterà legato a questa stagione, aprirà nuove porte, ma non ne porterà più la stessa urgenza.

4. Lo spazio
Ogni brano apre uno spazio preciso, visivo, quasi fisico. La misura dell’opera sta in un equilibrio perfetto tra lucidità e visione. È come se i Cult non fossero del tutto coscienti di ciò che stavano generando. In quella spontaneità si nasconde la sua perfezione, incisa entro un’opera evoluta. Definitiva. Astbury e soci avrebbero potuto chiudere lì; nulla di ciò che seguirà avrà la stessa, irripetibile densità.

5. Le canzoni
Dieci brani situati all’ombra “del tempio”, dove l’oscurità fagocita l’imponenza musicale: ogni passaggio ne percorre il perimetro senza mai convergere entro un solo brano. Non esiste un centro, ma un respiro condiviso, come se ogni traccia vivesse dell’altra. È un disco che si ascolta tutto d’un fiato, come quando contempli la leggerezza di una cattedrale gotica e ne segui le nervature – senza fermarti – rapito dal mistero di come possano ergersi così leggere e perfettamente armoniche nello spazio.

6. Il concerto
Dal vivo si percepisce tutto ciò che i Cult erano e sono diventati: l’energia primitiva di allora si è trasformata in una forza più diretta, consapevole, canalizzata. Astbury incarna lo spirito, Duffy ne governa la potenza con un suono che attraversa il corpo e riorganizza lo spazio. Li vidi in quel tour: quella sera non furono all’altezza delle mie aspettative; Astbury quasi afono, la band poco coesa. Ma poco importa. La loro verità resta incisa in quei solchi.

7. Il tempo
Riascoltare Love oggi significa misurare la resistenza di un suono al tempo. È un disco invecchiato bene, intatto nella struttura e nel suo respiro. Quelle atmosfere continuano a evocare gli stessi paesaggi interiori, la stessa tensione sospesa tra luce e oscurità. È la conferma che certe visioni non appartengono a un’epoca: vivono e occupano uno spazio che il tempo non può scalfire.

8. L’uno e l’altro
Il 1985 ha regalato due dischi fondamentali dello stesso universo: Love dei Cult e First and Last and Always dei Sisters of Mercy — eleganza e ossessione, luce e abisso, rito e sacrilegio. Album differenti eppure complementari, il cui unico denominatore possibile è l’oscurità. Come se l’uno avesse bisogno dell’altro per completarsi. She Sells Sanctuary e Marian risuonano come preghiere laiche: appartengono alla notte. Nei miei set dark/wave, non mancano mai.

9. Il rito
L’eredità di Love non sta nei revival o nelle riedizioni, ma in quella nicchia che continua a respirare nei club, tra le poche serate dark che ancora resistono. I dark, quando ballano, evocano presenze: hanno bisogno di spazio, non cercano il contatto. È un rito che si compie, non una posa… o almeno non per tutti. Ed è in quella liturgia che Love continua a manifestarsi: profano, apocrifo, come se il 1985 non fosse mai finito.

Come sempre, chiudo con una connessione musicale: una playlist dedicata, disponibile gratuitamente sul mio canale Spotify (link qui sotto). Se vuoi dire la tua, fallo nei commenti — o meglio ancora sulla mia pagina Facebook pubblica, collegata a questo blog. È lì che il dibattito continua, tra post, risposte e deviazioni imprevedibili. E sì, se ne leggono davvero di tutti i colori.

Buon ascolto. E, come sempre, buona lettura!

9 Canzoni 9 … dello stesso universo

L'articolo Love dei Cult compie quarant’anni: un disco invecchiato bene proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti