L’orto americano, il 43° film di Pupi Avati è una magnetica danza oltre il reale

  • Postato il 7 marzo 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Solo in quell’angolo di terra “dove aironi e angeli si confondono”, in un anfratto dello spirito dove oscurità dell’anima e ossessione amorosa si sfiorano può finalmente trovare requie il giovane protagonista di L’orto americano. Quarantatreesimo film diretto dall’86enne Pupi Avati che ancora impressiona per la pervicace cura formale con cui cerca di mostrare assillanti tormenti interiori attraverso le carte tradizionali del cinema di genere. Una versione ulteriore di “gotico padano” dove non è tanto il terrore, la paura, il salto sulla sedia a contare, a far sballare il sismografo dei colpi di scena, quanto lo scavo sottile e antico nell’inquietudine profonda di un personaggio.

A Bologna, finita la seconda guerra mondiale, un ragazzo senza nome – “Lui”- (Filippo Scotti) seduto sulla poltrona del barbiere incrocia per un istante lo sguardo, e si innamora follemente di Barbara, una crocerossina americana entrata nel locale per una manciata di secondi a chiedere un’indicazione stradale, piangendone subito l’immediata fuga e l’eterno addio dietro la porta del negozio.

Un anno dopo il giovane, appena uscito dal manicomio, in dialogo continuo coi suoi morti appesi foto per foto all’interno di una scatola che porta ovunque con sé, si trasferirà in una città nel Midwest statunitense per scrivere in pace un suo romanzo, ma dall’orto della vicina a pochi metri sentirà provenire lamenti di donna. Sottoterra, scavando febbrilmente lì di fianco troverà in un barattolo i resti anatomici di quella che sembra la ragazza vista per un istante e amata ciecamente oltre ogni barriera del tempo e dello spazio. Denunciato dalla famiglia dei vicini, tornerà a casa anzitempo per seguire il processo del presunto assassino di tre donne nella bassa ferrarese e forse anche della sua Barbara.

L’aldilà incombente e fatale preme sulla poetica di Avati consegnandoli l’urgenza della riesumazione di un funzionale, superbo, cupissimo bianco e nero e di un filo della propria memoria cinematografica da tirare per vedere scorrere frammenti e intuizioni di mezzo suo secolo di cinema come la casa di Davenport del suo Bix e i luoghi nebbiosi, umidi, malsani di La casa delle finestre che ridono. Ne esce un film di stratificata e complessa lettura, teso verso un magnetico gorgo dell’oltretomba che cancella realtà e realismo regalando una macabra e misteriosa danza sotto il reale, oltre il reale. Scotti (È stata la mano di Dio) si carica di un peso drammaturgico e di un’ambiguità enorme, da tenere vivi per un’ora e quaranta, mostrando di essere già un giovane fenomeno.

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Il Fatto Quotidiano

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