Lo Stivale che ride (e accoglie)

  • Postato il 9 settembre 2025
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di Francesco Mazzarella

Nel ricordo di mio padre Roberto

C’era una volta, a sud del vento e a nord del sole, un regno dalla forma di stivale: elegante, lucido in vetrina, scivoloso nei giorni di pioggia. Lo chiamavano semplicemente Lo Stivale. Aveva colline che parevano impastate con il pane, mari che profumavano di sale e limone, montagne capaci di far arrossire il cielo all’alba. In questo regno viveva una bambina di nome Itala, con gli occhi pieni di domande e la tasca destra piena di bigliettini: su ogni foglietto, una parola da non dimenticare—casa, lavoro, scuola, dignità, abbraccio. Nella tasca sinistra, invece, Itala portava una bussola un po’ storta, ereditata dalla nonna Memoria: indicava sempre a caso, ma come per magia si fermava al punto giusto ogni volta che qualcuno pronunciava la parola “noi”.

Un mattino, Itala montò sulla sua Vespa alata—un ronzio di libertà color menta—e decise di attraversare Lo Stivale per capire perché tutti ridevano e litigavano nello stesso minuto, com’era possibile che due verità potessero abitare la stessa piazza, e perché le promesse stavano bene nei comizi e così così nella realtà. La prima tappa fu a Palazzo Nel Frattempo, dove governavano ministri e ministre con titoli lunghi come gli scontrini della domenica: Ministro alle Urgenze Permanenti, Sottosegretaria ai Se Noti Non Post, Viceministro alla Rinuncia Temporanea del Temporaneo. Lì, ogni decisione veniva presa “nel frattempo”, cioè mai definitivamente: bastava una conferenza stampa, un decreto scritto come una poesia senza rime, una firma fatta con la penna dello sponsor, e il regno andava avanti di tre passi, poi tornava indietro di due, poi metteva la freccia a sinistra per svoltare a destra con convinzione.

Itala ascoltava e annuiva. Il Ministro alle Urgenze Permanenti la prese da parte: «Piccola, qui noi lavoriamo duro. Al mattino variamo, a pranzo annunciamo, al pomeriggio smentiamo, la sera facciamo una diretta. La realtà si fa così: per post». Itala tirò fuori un bigliettino—“scuola”—e lo mise sul tavolo. «E questa?». «Ottima!», esclamò il Ministro. «La inseriamo nel piano straordinario a fasi: fase annuncio, fase foto, fase futuro. Nel frattempo, sii fiduciosa». Nel frattempo: le tre parole magiche con cui Lo Stivale metteva ordine nel caos lasciandolo com’era, ma con stile.

Proseguendo, la Vespa alata portò Itala nella Val Burocrazia, un labirinto costruito da Zia Modulistica, creatura gentile con dieci braccia e quarantasei timbri. Per piantare un albero di arancio occorrevano: il Certificato di Cittadinanza dell’Albero, la Conferma Preventiva di Sole e Pioggia, il Nulla Osta ai Profumi, il Consenso Informato delle Api, e il Timbro del Gatto del Sindaco perché così si era sempre fatto. Trovare l’uscita era difficile, ma bastava un gesto antico: qualcuno ti prendeva per mano e ti diceva «Vieni, ti accompagno io». Ecco il primo prodigio del regno: quando le mappe si attorcigliavano, la gente si trasformava in strade.

Nella città di Parlamento, Itala incontrò la Compagnia dei Ma Anche, un coro di attori bravissimi a stare su due pedane contemporaneamente. «Siamo per la giustizia, ma anche per la rapidità, ma anche per la prudenza, ma anche per la flessibilità», cantavano a più voci, con coreografie di rimandi a commissioni e sopracciglia sollevate. Di fronte a loro, la Lega dei Distinguo rispondeva con danze a passi misurati: «Siamo per la pace, ma distinta dalla resa; per lo sviluppo, distinto dall’inquinamento; per la meritocrazia, distinta dal merito». Era uno spettacolo ipnotico: la platea applaudiva, rideva, si indignava, si riconciliava, poi usciva a prendere una granita e tornava dentro per vedere il bis. La politica nello Stivale era teatro e bottega: si scriveva e si cancellava nella stessa pagina, con una gomma che lasciava bricioline dappertutto.

Più a sud, al confine tra due promontori che si guardavano come fratelli separati alla nascita, Itala si fermò davanti a un cartello: “Qui sorgerà il Ponte dei Sospiri (di soddisfazione)”. Il cartello era ben piantato da anni; dietro, al posto delle fondamenta, una collezione di ruspe in vacanza e studi, mappe, mappe degli studi, studi delle mappe. La gente del posto sorrideva con una saggezza antica: «Bambina, noi abbiamo imparato a vivere tra un annuncio e l’altro. Nel frattempo, il mare resta mare. E noi ci traghettiamo la vita, tutti i giorni». Un pescatore le porse una spigola e le disse: «Il ponte più solido rimane quello del piatto: sedersi insieme, mangiare, ascoltarsi. Vedrai che i sospiri, di solito, vengono quando manca il sale». Itala rise e annotò sul bigliettino: “ponte umano”.

La Vespa, contenta, la portò poi lungo la dorsale dove correvano due treni: il Freccia Miracolosa—velocissimo, elegante, capace di arrivare prima ancora di partire—e il Treno Lumaca, con il quale la primavera arrivava in autunno e i bagagli diventavano parte della famiglia. Sul Freccia Miracolosa si parlava inglese con la erre perfetta, si mangiavano snack sottovuoto con purissima nostalgia di cibo. Sul Treno Lumaca si condividevano arancini, racconti, stazioni senza ascensori, e arrivati a destinazione ci si abbracciava perché «oh, guarda, ci siamo». “Coerenza o coesistenza?” si domandò Itala. Forse, in quello Stivale, entrambe. Nel vagone due donne si scambiarono indirizzi: una cercava lavoro per il figlio; l’altra offriva lezioni di matematica al nipote. Il controllore sorrise e, facendo finta di non vedere due biglietti scaduti, disse: «Facciamo che oggi il ritardo lo pago io». Non era corretto secondo il regolamento. Era giusto secondo la vita.

Itala raggiunse la capitale dei Paradossi e si imbatté in un mercato barocco dove si vendevano Semplificazioni in comode confezioni da dieci. «Prendi due semplificazioni e paghi tre complicazioni in omaggio!», urlava il banditore. Nei banchi accanto si trovavano pacchetti di Riforme Definitive, tutte con l’etichetta “da aggiornare domani”, e scatole di Sicurezze Perenni prive di manuale. In fondo, seduto su una cassa di pomodori San Vero, il signor Comune Senso distribuiva consigli a chi lo cercava: «Non mescolare carota e martello. Se fai un buco, prova a vedere cosa c’è sotto. Ricordati che la fretta è una cattiva cuoca». Era l’unico a non gridare, e per questo lo sentivano in pochi. Ma chi lo ascoltava tornava a casa con il peso giusto sulle spalle.

Lungo la costa, Itala incontrò la Signora Mediterranea: portava un grembiule blu e un cucchiaio enorme con cui mescolava maree, memorie e rotte. «Vedi, bambina,» disse, «io sono la tavola più lunga del mondo. Su di me arrivano i viandanti di sale: alcuni portano cicatrici, altri speranze, tutti hanno fame». In ogni porto c’era un miracolo semplice: una pentola che borbottava, un letto improvvisato, una coperta con l’odore di casa, un medico che non chiedeva da dove venivi ma come stavi, una maestra che metteva tre alfabeti in una pagina sola, un sindaco che apriva un deposito comunale e lo chiamava “noi”. Qualcuno protestava—la paura parla sempre a voce alta—ma l’accoglienza aveva una voce fermissima, come quella delle montagne quando scendono a valle: «Siediti, mangia. Poi discutiamo». E se qualcuno cadeva, c’erano mani che lo rialzavano senza chiedere documenti: mani di Protezione Civile, mani di Nonne, mani di Ragazzi con chitarra, mani di Preti stanchi e Donne laiche testarde, mani di Imprenditori che sapevano guardare oltre il cancello della fabbrica.

Nel regno c’era anche un drago. Non sputava fuoco, ma moduli. Si chiamava Fisco, e quando era in giornata proteggeva i piccoli, chiedendo ai grandi di essere finalmente grandi. Quando, invece, si svegliava con la luna storta, inseguiva artigiani con la partita iva come se fossero pirati e lasciava passare galeoni carichi di scappatoie. Con lui viveva lo stregone Doppia Fattura, che aveva il dono di far sparire le ricevute quando servivano e far apparire fatture quando era tempo di contributi. Un giorno il drago Fisco e lo stregone litigarono così forte che si bloccarono i cantieri di mezzo regno: nel frattempo—la formula di sempre—fu la gente a rimettere in piedi i ponteggi, a trovare le soluzioni, a fare testa, cuore e conti.

A Porta Televisione regnava l’Oracolo dei Talk Show. Dicevano che chiunque si sedesse su quelle poltrone veniva trasformato in esperto della cosa di cui parlava. Bastavano tre minuti e un grafico colorato, e si poteva dire tutto il contrario di tutto con grazia e certezza. Itala cercò il Fact-Checker, un piccolo folletto che viveva tra i cavi e sussurrava “non è proprio così” nell’orecchio di chi voleva ascoltare. Il folletto era stanco, ma non si arrendeva: aveva il dono di far crescere un dubbio dove prima c’era un urlo. «Vedi, bambina,» le disse, «la verità non ama il traffico. Arriva in ritardo, ma preferisce arrivare intera». Itala gli regalò il bigliettino “dignità” e il folletto, commosso, gli fece un posto nel taschino: «Quando finirà la batteria dell’indignazione, userò questa parola per ricaricarmi».

In un borgo di pietra, Itala vide due alberi gemelli: uno piantato per chi aveva detto no al ricatto, l’altro per chi aveva scoperto la forza della legge dentro la paura. Nessuna targa, nessun grande discorso; solo due ombre fresche sulla panchina dove i ragazzi facevano merenda. La nonna Memoria—che improvvisamente sembrò camminare accanto a Itala—le sussurrò: «Le ombre buone proteggono senza chiedere applausi». Più avanti, un murales disegnava una maestra che apriva finestre, un operaio che stringeva bulloni come fossero promesse, una infermiera con occhi che tenevano insieme la notte. “Il nostro eroe collettivo,” pensò Itala, e mise via un altro bigliettino: “grazie”.

Non tutto, però, era poesia. Nel Regno dello Stivale c’era anche il Ministero del Poi Vediamo, dove venivano depositate le decisioni difficili: lì il tempo si addormentava sulle sedie e i problemi diventavano vecchi, poi antichi, poi eredità. C’era il Dipartimento dei Cantieri Inaugurati Due Volte, con nastri tricolori che imparavano a farsi e disfarsi alle stagioni. C’era la Direzione Generale dei Sussidi a Pioggia con Previsioni di Sole, e il Reparto Soluzioni Semplici a Problemi Complessi (e viceversa). Ma accanto a tutto questo, sempre, c’era una cosa incredibile: la capacità del popolo di apparecchiare la tavola. Quando mancava l’autobus, si organizzava il passaggio; quando crollava una scuola, i genitori e le maestre inventavano un’aula sotto un tendone; quando il lavoro scarseggiava, spuntavano botteghe con insegne dipinte a mano e orari “finché ce la facciamo”.

Il viaggio di Itala proseguì lungo la dorsale dei paesi che si spopolano, dove le case chiuse guardano la piazza con pudore. Lì, un sindaco dal cappello consumato le disse: «Abbiamo due strade: diventare cartolina o diventare casa. La cartolina si vende bene, la casa dura di più». Gli anziani insegnavano a impastare il pane, i bambini adottavano un albero ciascuno, i nuovi arrivati—con lingue come conchiglie diverse—portavano mestieri dimenticati. «Non siamo un museo», scriveva un cartello, «siamo un futuro in prova». In quel paese una panettiera tunisina sfornava sfincioni grandi come la nostalgia, un infermiere del Mali misurava la pressione gratis in piazza ogni venerdì, e un professore in pensione dal Veneto faceva lezioni di matematica in dialetto: la gente capiva lo stesso, perché la matematica delle cose indispensabili è una lingua universale.

Un pomeriggio, la Vespa alata si fermò: aveva bisogno di una pausa e di un caffè (anche le fiabe rispettano i riti). Itala entrò in un bar dove sulle pareti c’erano foto di squadre di calcio che avevano perso con dignità, matrimoni festeggiati con misura, e un concorso di poesie per il miglior verso dedicato alla fila alle Poste. Sul bancone, accanto alle sfogliatelle, c’era una lista di sospesi: caffè già pagati per chi non poteva. Il barista disse: «Qui la coerenza è semplice: se a me oggi va bene, domani va bene a un altro. Fine del programma». Itala bevve piano e capì che la vera politica non era solo nelle leggi, ma nei gesti che fanno girare il sangue del giorno.

Ripartendo, la bambina arrivò al Bosco delle Parole. Gli alberi erano etimologie: cittadinanza, che veniva da città ma si allargava fino a campagna; responsabilità, che conteneva dentro di sé la risposta; appartenenza, che suonava come una porta che si apre dall’interno; confine, che, capovolto, mostrava il fine di stare insieme. Ogni parola chiedeva di essere abitata. La bambina provò ad appoggiare la sua bussola storta su un tronco e, per la prima volta, l’ago smise di tremare: indicava un nord che non era geografia ma promessa.

Giunta quasi alla fine del viaggio, Itala tornò nella capitale. Trovò una piazza piena: gli uni gridavano, gli altri fischiavano, sfrangiamenti mediatici svolazzavano come coriandoli fuori stagione. In mezzo alla piazza, su una cassetta di legno, stava la signora Costituzione: non alzava la voce, teneva un mantello cucito con gli articoli più belli—lavoro, uguaglianza, solidarietà, libertà di parola, diritto all’istruzione, dovere di contribuire—e diceva poche cose chiare: «Siete tutti di passaggio, io resto. Prendete il mio mantello quando piove. Restituitelo cucito meglio quando esce il sole». Gli uni e gli altri si zittirono per un momento, poi ricominciarono a discutere. Ma il mantello rimase lì, a disposizione di chi avesse freddo.

La notte scese e portò con sé le luci dei balconi: televisori accesi su serie che avevano sempre la stessa puntata, padelle che cantavano nel soffritto, domande di compiti per casa, messaggi di lavoro a orari sbagliati, e un respiro collettivo che, nonostante tutto, reggeva. Itala sedette sul davanzale di un albergo modesto, prese i suoi bigliettini e li rilesse uno a uno. Poi aggiunse una nuova parola: “accogliersi”. Le era chiaro che fine a se stessa l’accoglienza può sembrare un favore; accogliersi, invece, è un modo di stare al mondo, un patto: io divento casa per te, tu diventi futuro per me. Ridimensiona gli slogan, allarga le cucine.

All’alba, prima di ripartire, la bambina incontrò il Re Pubblica. Non aveva corona: portava un cappello di paglia e un grembiule macchiato di sugo. «Che hai visto?» chiese. «Ho visto incoerenze vestite da programma, programmi vestiti da incoerenze. Ho visto decreti che nascono già stanchi, promesse che vanno in palestra solo d’estate. Ho visto treni che non arrivano e persone che arrivano puntuali. Ho visto paura con i megafoni e coraggio con il mestolo. Ho visto il popolo apparecchiare la tavola mentre i grandi discutevano del tavolo». Il Re annuì, aprì una credenza e tirò fuori una tovaglia con molte macchie e molte toppe. «Questa è la nostra. Non è perfetta, ma copre tutti se la tiriamo insieme». Posò la tovaglia su un tavolo lunghissimo che attraversava la piazza, poi i vicoli, poi il ponte dei sospiri (quello umano), poi le stazioni lente, poi i porti dove la Signora Mediterranea mescolava le maree. Gente di lingue diverse arrivò con i piatti: minestrone, couscous, polenta, caponata, pierogi, baklava, pane azzimo, arance e mele, olive e riso, cibi che non erano “loro” o “nostri” ma “nostri perché ormai di tutti”.

Qualcuno mormorò che non c’era posto per tutti. La nonna Memoria, che passava di lì con la sua bussola storta, rispose: «Il posto si fa sedendo più stretto. La bellezza, qui da noi, è addizionare sedie». Un signore elegante propose di misurare ogni centimetro di tovaglia prima di ammettere un cucchiaio in più; un ragazzo con la chitarra iniziò a suonare una canzone che nessuno conosceva ma che tutti imitarono. La discussione si sciolse in coro, e—miracolo che succede più spesso di quanto si pensi—il tavolo diventò abbastanza lungo.

L’ultimo giorno, Itala tornò al punto di partenza. La Vespa alata si addormentò accanto al muretto, esausta ma serena. La bambina aprì un quaderno e scrisse: «Lo Stivale è incoerente, sì: proclama di amare la semplicità e disegna labirinti; dice “mai più” e poi “ancora un attimo”; promette ponte e costruisce trabiccoli; si traveste da serio e si consola con la farsa. Ma quando c’è da stringersi, stringe; quando c’è da aprire la porta, apre; quando c’è da insegnare a un bambino a dire “grazie” in due lingue, lo fa. È un Paese che inciampa sulle sue stesse parole e tuttavia riesce a mettere in tavola un piatto anche per l’ospite inatteso. La sua politica è un teatro dove gli attori dimenticano spesso il copione; la sua gente, però, sa improvvisare la parte migliore». Chiuse il quaderno e sorrise: «Non è un lieto fine. È un lieto ricominciare».

Da quel giorno, nei paesi, nelle città, nelle periferie e nelle isole, ogni volta che qualcuno pronunciava la parola “noi”, la bussola storta di nonna Memoria si fermava un secondo in più, come per dire: “Di qua”. E se capitava che la piazza tornasse a riempirsi di urla, bastava un profumo di soffritto, una sirena di ambulanza che arrivava in tempo, un maestro che apriva una finestra per far entrare più cielo, un sindaco che diceva “scusate, ho sbagliato”, un imprenditore che scommetteva su un apprendista con l’accento di un altro mare, un parroco e un imam che condividevano la stessa panchina, una poliziotta che imparava il nome difficile di una bambina appena arrivata: bastava poco, e il regno ricordava la cosa più semplice e più difficile insieme—che lo Stivale tiene se lo allacciamo tutti.

E vissero, non sempre felici e non sempre contenti—sarebbe una bugia—ma spesso capaci di dirsi “vieni”, e di fare spazio. Che poi, per un regno, è già una forma alta di felicità.

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