L’Europa tra pace impossibile e leadership smarrita. L’opinione del gen. Del Casale
- Postato il 8 dicembre 2025
- Difesa
- Di Formiche
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Continua a far discutere il piano Trump per la pace in Ucraina come pure la posizione che l’Unione europea deve assumere a sua volta, schiacciata tra un’emarginazione internazionale e un ruolo rivendicato, almeno da co-protagonista, nella soluzione della crisi che più direttamente intacca la sua sicurezza e, forse, la sua stessa sopravvivenza. Da tempo, è venuto meno l’appoggio politico americano a Kyiv e il supporto militare ha conosciuto preoccupanti pause, salvo poi porre la sicurezza ucraina nelle mani – e nelle tasche – dell’Ue.
La nuova stagione di dialogo tra Putin e Trump, aperta col vertice di Anchorage, ad agosto, evidenzia che la partita per la supremazia globale si giocherà in realtà sul quadrante indopacifico, tra Stati Uniti e Cina, il cui abbraccio con Mosca il Potus (President of the United States) cerca di allentare. Pur nella loro drammaticità, la guerra in Ucraina e la crisi mediorientale sono elementi di disturbo per la politica estera americana, da neutralizzare quanto prima. L’imperativo è quindi “pace subito”, ma che non fa rima con “pace giusta”. E, poi, “giusta” per chi? Il significato che le attribuisce l’Occidente non è di sicuro quello che intende il Cremlino. Allora, occorre più concretamente pensare a una “pace sostenibile” che nasce dalla consapevolezza, di una delle parti in conflitto, della totale assenza di prospettive di successo. E si dovrà partire dalla situazione sul campo. La Storia docet.
I 28 punti di Trump per l’Ucraina, poi scesi a 20 con gli emendamenti al “piano” proposti da Kyiv (e dall’Ue), non portano buone notizie per il presidente Zelensky. Fissano l’intangibilità della sovranità ucraina, ma poi entrano in contraddizione fissando un tetto di 600.000 unità per le forze armate, il perenne divieto di ingresso nella Nato e l’obbligo di indire nuove elezioni entro 100 giorni dalla firma dell’accordo, mortificando così il concetto stesso di sovranità. Ma il confronto sostanziale si gioca sulle concessioni territoriali alla Russia che – sia ben chiaro – comunque ci saranno. Non occorre essere simpatizzanti per Mosca per prevederlo. Per l’Europa, le cose non vanno meglio. Il Potus ha previsto di scongelare i beni russi bloccati dall’Unione europea per investirli nella ricostruzione post-bellica, attraverso un fondo d’investimento “separato” (?) russo-americano, con un impegno europeo di investire pesantemente, a sua volta.
Il problema di fondo, per Bruxelles, è l’aver sposato acriticamente, sin dalle prime ore “dell’operazione speciale”, la causa di Kyiv schierandosi al fianco, suo e dell’amministrazione Biden, facendosi paladina del Diritto internazionale come mai accaduto in altre, analoghe occasioni di crisi internazionali, e ignorando che avrebbe in tal modo rinunciato alla sua storica vocazione di mediatrice internazionale. Un sostegno a Zelensky diventato via via dogmatico, al punto che nemmeno i recenti episodi di corruzione scoperti in seno alle istituzioni ucraine, a danno degli aiuti europei, o gli accertati attentati terroristici condotti dalle forze speciali di Kyiv contro i gasdotti North Stream 1 e 2, nel 2022, sono riusciti a scalfire.
Ora, l’Unione europea pretende di ricoprire un ruolo negoziale con Stati Uniti, Russia e Ucraina. Ma è difficile esercitare la diplomazia senza possedere due strumenti fondamentali: una forza economica e uno strumento militare credibile. Aspetto, quest’ultimo, in merito al quale si inizia forse a comprendere a quali rischi il vecchio continente sia esposto. La Nato resta sicuramente riferimento fondamentale. Ha assicurato 80 anni di pace ininterrotta, ma ora è attesa a una nuova fase della sua vita, con la componente continentale che dovrà recuperare 30 anni di capacità militari perdute in ossequio alla vacua convinzione che fosse “scoppiata la pace” e al conseguente depauperamento di risorse, dirottate non sempre in modo oculato sul sociale. E non ha finora aiutato l’atteggiamento da parte dei due ultimi segretari generali, lo svedese Jens Stoltenberg e l’olandese Mark Rutte, che hanno abbracciato senza riserve e con toni interventistici la causa ucraina, più da accesi leader autonomi che da alti funzionari di una struttura di cui sono portavoce, competendo ai capi di governo dei Paesi membri, riuniti in Consiglio atlantico, esprimersi politicamente. L’Europa è senza dubbio al centro di interessi tra loro contrapposti, ma che convergono sul comune interesse di influenzare le politiche di Paesi membri dell’Unione per evitare che diventi un grande player internazionale col quale dover fare i conti.
La Russia, fedele alla sua dottrina di influenza in una propria area geopolitica, per anni ha fatto leva sulle enormi forniture di gas e petrolio alle nazioni europee, attuando una penetrazione politica oggi difficile da estirpare. Nonostante le sanzioni occidentali a Mosca, Ungheria e Slovacchia importano materie prime energetiche russe col beneplacito occidentale e non a caso esercitano spesso l’arma del veto nel consesso parlamentare europeo. Gli Stati Uniti non sono da meno. Nelle politiche Maga (Make America great again) di Donald Trump, l’Europa è considerata una sanguisuga economica che ha sempre cercato di truffare gli americani, nonostante abbiano sempre provveduto alla sua sicurezza. È giunta l’ora di smantellarla. Un approccio che non appartiene solo al tycoon. Da anni, diversi think tank d’oltreoceano investono risorse nel nostro continente per alimentare l’euroscetticismo. L’Heritage Foundation è di sicuro il più attivo in tal senso, senza contare gli innumerevoli incontri che il Dipartimento di Stato americano promuove di continuo con i maggiori partiti euroscettici, da Rassemblement National, di Marine Le Pen, a Vox, di Santiago Abascal. D’altro canto, è palese la sensazione di un’istituzione che appare stanca, con un apparato burocratico enorme e costosissimo, sempre più lontana dai bisogni della gente, incapace di realizzare un’integrazione fiscale (i “paradisi” di Olanda e Lussemburgo sono una realtà), con politiche industriali incomprensibili che penalizzano tanti settori, come quello automobilistico, e che balbetta innanzi alla necessità di dar vita a un sistema di Difesa e sicurezza integrato nella Nato.
Ma allora che fare? Il cambio di passo americano nella guerra in Ucraina ha lasciato più di un nervo scoperto, inducendo i Paesi leader europei e Regno Unito a riavvicinarsi come mai nel passato. Francia, Germania e Italia, seguite da Spagna e Polonia, stanno giocando una partita molto importante per la sicurezza continentale. I Volenterosi rappresentano una nuova leadership che, mediante l’impegno a supporto dell’Ucraina, sta cercando di ridisegnare la mappa della Difesa comune. Certo, assai meno credibile quando si esprime – per dirla alla Macron – sulla “forza di rassicurazione” per l’Ucraina (ma, poi, per rassicurare chi, con 20.000 unità?). Tuttavia, può essere il segnale di un avvio di cambiamento. Non per un’Europa, di fatto, già a due velocità, ma di un gruppo di nazioni che possono guidare un più ampio rinnovamento delle istituzioni europee, creando un sistema di cooperazione più flessibile e meno coattivo, ove diventi tra l’altro più concreta la trasparenza dei rapporti finanziari tra Banca centrale europea, banche nazionali, oligopoli multinazionali e istituzioni europee. Pensare, cioè, a un’Europa che torni a ispirarsi a quei principi di mutuo supporto che alimentò 75 anni fa il sogno dei Padri fondatori.