Leonardo produce il Michelangelo Security Dome: un trend che tocca vette di ipocrisia inarrivabili

  • Postato il 12 dicembre 2025
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C’è un ufficio marketing, da qualche parte nei palazzi della Difesa italiana guidata con mano ferma dal ministro Guido Crosetto, dove qualcuno ha deciso che perfino la guerra ha bisogno di un restyling culturale. Il mantra è: efficienza letale e “genio italiano”. In questa cornice i nomi non sono etichette neutre, ma connettori fra le cose e il loro senso. Per questo, mi colpisce leggere che un nuovo sistema missilistico integrato, una rete complessa di sensori e attuatori capaci di incenerire minacce ipersoniche, sia stato battezzato “Michelangelo Security Dome”. E a produrlo è Leonardo, il colosso nazionale degli armamenti.

Michelangelo e Leonardo, due nomi che, nella nostra memoria collettiva, rimandano a cappelle affrescate, cupole, disegni visionari, bellezza. Vederli legati a un sistema d’arma nuovo di zecca, a radar, missili, “effettori” coordinati, disturba parecchio. Almeno me. Per cui mi chiedo: che cosa è andato così storto?

È una questione di buon gusto e di coerenza simbolica. Abbiamo già digerito, quasi senza accorgercene, lo scandalo originale. Leonardo S.p.A. è da anni il marchio di un’azienda leader del settore delle armi che gioca su questa ambiguità. Il nome di Leonardo da Vinci, vegetariano convinto che comprava gli uccelli al mercato solo per liberarli dalle gabbie, è diventato sinonimo globale di elicotteri d’attacco, caccia addestratori e sistemi di puntamento. Certo, Leonardo disegnava macchine da guerra per Ludovico il Moro, ma lo faceva per finanziare la sua arte, con il disprezzo dell’intellettuale costretto a sporcarsi le mani. Oggi quel nome è un brand della più grande industria bellica d’Italia, fattura 18 miliardi l’anno ed è in crescita, ovviamente, per le logiche dilaganti della guerra permanente. È normale associare l’Uomo Vitruviano ai floridi bilanci di tale azienda? Propongo di cambiargli nome.

L’operazione Michelangelo alza l’asticella della perversione culturale. Qui si gioca sull’evocazione. Chiamare “Michelangelo Security Dome” un sistema d’arma serve a pulire la coscienza dell’acquirente. Dalla cupola della Basilica da cui officia Papa Leone XIV, disegnata dal Buonarroti, alla cupola antimissile. È il “Made in Italy” che piace a Giuli, Santanché, Lollobrigida e Crosetto, applicato alle logiche della difesa contro la Russia di Putin e le sue voglie espansionistiche. Il radar di questo nuovo armamento si chiama Kronos: vabbè, è greco e significa “tempo”, ma qui almeno c’è coerenza, dato che Crono divora i suoi figli, metafora perfetta della guerra. Anche i francesi hanno chiamato le loro navi militari con i nomi di filosofi o matematici, vedi la classe “Descartes”, ma qui da noi il trend tocca vette di ipocrisia inarrivabili.

Vero è che da anni le parole gestite dalla politica cercano di stravolgere i significati. E quindi le guerre diventano “operazioni di pace”, i bombardamenti “interventi umanitari”, i missili “peacekeeper”, le bombe “intelligenti”, le deportazioni forzate “zone umanitarie”. Nel settore civile, le aziende più inquinanti si tingono di “green“, “eco”, “planet”, mentre vendono l’esatto contrario. I nomi servono a costruire una narrazione in cui ciò che distrugge appare come qualcosa che protegge.

Forse è il momento di dirlo, anche se nessuno ascoltasse. Ci sono nomi che dovrebbero restare legati alla vita, alla conoscenza, alla scienza, all’arte. Non per moralismo, ma per igiene simbolica e mentale. Perché il modo in cui chiamiamo le cose finisce, piano piano, per cambiare il modo in cui le pensiamo. E un Paese che usa i suoi geni del Rinascimento per battezzare armi rischia di dimenticare che la sua grandezza è nata dall’arte, dalla musica, dalla letteratura, non da radar e missili.

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Il Fatto Quotidiano

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