L’asimmetria fra le violazioni del diritto umanitario commesse da Israele e quelle di Hamas
- Postato il 2 ottobre 2025
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di Luciano Sesta*
Mohammed Dahlan, comandante delle forze di sicurezza palestinesi a Gaza nel 2002, ha sempre presentato gli attacchi palestinesi ai civili israeliani come una risposta all’uccisione israeliana di civili palestinesi. Se nei raid israeliani vengono ripetutamente e sistematicamente uccisi civili – così si dice – perché mai i palestinesi non potrebbero fare altrettanto? Anzi, in questo caso persino il brutale attacco del 7 ottobre 2023 sarebbe, se non giustificato, almeno scusato, nell’ottica della cosiddetta “emergenza suprema”, ossia come rimedio estremo al cospetto di una minaccia esistenziale: visto che i palestinesi non dispongono di una capacità militare simile a quella di Israele, e poiché gli accordi di Abramo avrebbero sancito la definitiva scomparsa della causa palestinese dallo scenario mediorientale, l’attacco del 7 ottobre sarebbe stata l’unica arma disponibile per un’autodifesa di ultima istanza.
A questo riguardo, sembra esserci un’asimmetria fra le violazioni del diritto umanitario commesse da Hamas e quelle commesse da Israele, come sembra mostrare l’attuale movimento di opinione a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina. Com’è stato osservato, “uno svantaggio materiale [come quello subìto da Hamas palestinese] non esenta un avversario dalle norme di condotta durante un conflitto armato, purché la nazione più forte [Israele] rispetti il diritto umanitario e persegua una guerra limitata piuttosto che una guerra totale di annientamento contro la nazione più debole. Se la nazione più forte abusasse dei civili e perseguisse una guerra genocida, allora, e solo allora, la nazione più debole potrebbe prendere in considerazione l’idea di mettere da parte il diritto umanitario” (M. L. Gross, Killing Civilians Intentionally: Double Effect, Reprisal, and Necessity in the Middle East, “Political Science Quarterly”, Vol. 120, No. 4).
Ad avere funzioni difensiva e di deterrenza, insomma, sarebbe non solo la rappresaglia israeliana a Gaza, ma anche quella palestinese: attaccando i civili, il terrorismo spera non solo di scoraggiare il regime militare di Israele, ma anche di indebolirne il morale esercitando pressione sul suo governo, affinché presti ascolto alle rivendicazioni politiche palestinesi. Lo scenario, a questo punto, diventa il seguente:
– Secondo la logica dell’emergenza suprema, i belligeranti possono sacrificare i civili della controparte quando la loro comunità di appartenenza affronta una minaccia esistenziale;
– Palestinesi e Israeliani affrontano una minaccia esistenziale;
– Sacrificare i civili della controparte rimane l’unica scelta che previene efficacemente tale minaccia.
Un simile schema di ragionamento richiede che sia possibile calcolare ciò che, con ogni probabilità, nessuno è in grado realisticamente di calcolare, ossia:
– che la propria comunità stia davvero subendo una minaccia esistenziale, e dunque irreversibile e globale, piuttosto che soltanto limitata o parziale;
– che il sacrificio di un certo numero di civili della controparte sia non solo necessario, ma anche sufficiente a garantire la sopravvivenza della propria comunità, piuttosto che esporla a rischi maggiori (per esempio di rappresaglia) di quelli che sarebbero derivati da mezzi alternativi.
La difficoltà di questo calcolo rende particolarmente oneroso sacrificare persone innocenti. Perché ci si possa ritenere autorizzati a sacrificare civili, infatti, il danno che si previene dev’essere altrettanto certo e grave di quello che si provoca intervenendo. Quale dei due attori in conflitto può oggi esibire questa certezza?
Peraltro, per quanto riguarda la minaccia esistenziale – che andrebbe distinta dalla “sicurezza interna” – è più verosimile che incomba sulla comunità palestinese che sullo Stato di Israele. Al di là della radicalizzazione politica dei due schieramenti, che induce ciascuno dei due ad auspicare la “distruzione” e “cancellazione” dell’altro, la sproporzione delle forze in campo suggerisce infatti che i timori di andare incontro a un’estinzione politica, se non fisica, siano più plausibili per i palestinesi che per gli israeliani. Una minaccia esistenziale, infatti, va commisurata non già a ciò che ciascuna delle due parti dichiara di voler fare (cancellare l’altra), ma a ciò che essa può realmente fare. E se Israele ha i mezzi per cancellare la comunità palestinese – come stiamo tragicamente vedendo – la comunità palestinese non ha alcuna capacità militare di distruggere la comunità israeliana.
Naturalmente è sempre possibile far notare che Israele – al di là degli eccessi verbali di alcuni dei suoi uomini di governo – non abbia alcuna esplicita intenzione di distruggere il popolo palestinese. Viceversa, si può precisare che Hamas non voglia cancellare il popolo ebraico, ma solo la sua presenza politica, come Stato sionista, in Palestina (così l’ultima versione dello Statuto di Hamas, aggiornata al 2017). Si obietterà che il modo in cui Hamas sacrifica civili israeliani è ben diverso dal modo in cui l’IdF sacrifica civili palestinesi. Mentre infatti Hamas prende direttamente di mira i civili, e dunque li uccide intenzionalmente, l’IdF ne provoca la morte solo come effetto collaterale indesiderato di azioni che prendono di mira obiettivi militari. Tutto avviene, insomma, come se Hamas scegliesse sadicamente di uccidere civili, laddove Israele, non avendo scelta, ne tollerasse solo a malincuore la morte. È davvero così?
*docente di Filosofia Morale Dipartimento SPPEFF, Università di Palermo
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