La voce di Hind Rajab, calorosa l’accoglienza del pubblico italiano: una grandissima lezione di cinema

  • Postato il 2 ottobre 2025
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La calorosa risposta del pubblico italiano all’uscita de La voce di Hind Rajab – terzo domenica scorsa al botteghino, con oltre ventimila spettatori e più di 150.000 euro di incasso e secondo ancora ieri, mercoledì – non deve far pensare solo a un’adesione umanitaria a un film che coincide con il momento incandescente che stiamo vivendo, con la Flotilla accerchiata dalla marina israeliana intorno a Gaza e la guerra che non cessa di seminare morti.

Il film della tunisina Kaouther Ben Hania, peraltro già vincitrice di premi a Cannes e di César in Francia con il precedente Quattro figlie e ora Leone d’argento a Venezia con questo film, è soprattutto una grandissima lezione di cinema. È un ideale proseguimento dello spirito neorealista, di quell’urgenza di testimoniare nell’immediatezza del dramma che fu all’origine di film come Roma città aperta o Germania anno zero.

Anche qui si potrebbe ripetere con Rossellini: le cose sono lì, perché manipolarle? E infatti Ben Hania non manipola, prende il documento agghiacciante della voce di una bambina che chiama aiuto mentre i soldati israeliani stanno sparando raffiche e ne fa un documento straordinario. Hind – che tutti chiamano anche Hanood – chiede di non abbandonarla, di restare con lei. Il sottile tracciato della sua voce che si staglia sul fondo nero dell’immagine è prima di tutto un filo: filo di voce, filo di speranza, filo di unione tra persone lontane, filo logico infine, in un universo che sembra aver perso definitivamente quel filo.

Una bambina soffre, qualcuno la ascolta e vuole intervenire. Ma l’immagine nera è anche un gesto di silenzio visivo. Come se il cinema, che ha e ha sempre avuto occhi per vedere e far vedere anche le scene più atroci – oggi soprattutto, che testimoniamo tutto con i nostri smartphone – non trovasse immagini per raccontare il dramma di Hanood e si ritirasse di fronte all’infilmabile di Gaza. L’immagine nera è questo, è il lutto del cinema, il solo modo di rendere “visivo” questo orrore con un’immagine che non ci sarà. Ma il film è molto di più della sola voce di Hanood: da un lato ci sono i simboli disciolti nella ricostruzione drammaturgica: il vetro che separa i due operatori telefonici della Mezzaluna Rossa – Omar, che dialoga con Hanood, e Mahdi, che cerca di ottenere dall’esercito israeliano il via libera per un’ambulanza, è, oltre che la cristallizzazione dello scontro tra passione e ragione, cuore e mente, anche il teatro di un dramma del tempo dilatato.

Ci vorrebbero otto minuti per raggiungere Hanood con un’ambulanza. Ma questi otto minuti diventano un’ora, poi due, poi sempre di più, come scrive Omar continuamente su quel vetro. Tutto sembra provvisorio e sul punto di disfarsi nel film: il percorso dell’ambulanza, una volta ottenuti i permessi, deve essere deviato, la linea telefonica con la bambina cade di continuo, la foto della bambina, nell’ufficio della Mezzaluna Rossa, dapprima non c’è e viene sostituita da una silhouette, poi si trova e viene attaccata al vetro. È letteralmente una vita appesa al filo, quella di tutti gli attori di questo dramma.

Infine, il momento culminante del film, quello cinematograficamente più sconvolgente, è anche quello in cui il cinema si fa luogo di riflessione e ribaltamento su se stesso, metacinema. Il sacrificio si è compiuto e non ci sono più parole: solo un telefonino entra in campo e mostra, sopra i volti degli attori che hanno interpretato questo dramma della verità, il filmato degli autentici operatori della Mezzaluna Rossa ripresi da qualcuno nei momenti terribili della telefonata con Hanood. E le due immagini dissolvono l’una nell’altra, si mescolano, si sfocano in una combinazione-sovrapposizione-identificazione tra realtà e finzione. Che è, poi, il vero senso del cinema.

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Il Fatto Quotidiano

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