La vita segreta di Margaret Atwood: “Sono una creatura liminale, una sorta di Baba Jaga ora benevola ora ostile”. Il memoir della scrittrice de “Il racconto dell’ancella”
- Postato il 21 novembre 2025
- Libri E Arte
- Di Il Fatto Quotidiano
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A ottantacinque anni, Margaret Atwood entra in scena vestita da portiere di hockey. È ospite di un programma comico: le assicurano che sarà divertente, e lei si presta. Sorride, scherza sulla propria goffaggine, lascia che una controfigura si occupi delle acrobazie. È un’immagine che sembra un manifesto: la scrittrice che guarda se stessa attraverso chi la interpreta. Le nostre vite. Una specie di autobiografia comincia così, con una parodia. Ma prima della scrittrice viene la bambina che parlava, facendoli dialogare e ascoltandoli, con i biscotti a forma di coniglio prima di morderli. In quell’infanzia remota, nel silenzio del Nord canadese, c’è già la radice del suo mestiere: dare voce alle cose. “Magari avessi una controfigura anche nella vita”, scrive. E più avanti: “Tutto è materiale. Cosa ne farò?”. Atwood parla di sé con un distacco leggero, autoironico, che è anche la sua maniera di pensare.
Nata a Ottawa nel 1939, figlia di un entomologo, trascorre l’infanzia nelle foreste del Québec tra estati in tenda e stufe a legna, la scuola iniziata solo dopo gli undici anni, le fiabe dei Grimm, i disegni, le invenzioni; nel memoir riaffiorano la madre che impastava, il padre chino sulle teche d’insetti, un gatto di nome Perky e un fratellino mai nato, “una presenza mancata”. “Sono una creatura liminale, custode di soglie, metamorfica, una sorta di Baba Jaga ora benevola ora ostile”, scrive di sé. Forse è da lì che nasce la sua capacità di muoversi tra i generi e di tenere insieme leggerezza e mistero. Le antagoniste, più delle eroine, sono da sempre il suo punto d’osservazione. “Ogni scrittore sa che senza la regina cattiva la trama non esiste.” Da La donna da mangiare (1969), satira del consumismo e dell’educazione sentimentale, alle figure ambigue di L’altra Grace (1996) e L’assassino cieco (2000, che le valse il Booker), Atwood costruisce figure femminili che non chiedono indulgenza.
Dopo la laurea a Toronto studia a Harvard con una borsa, lavora in biblioteche e università, vive in appartamenti presi in affitto o in stanze condivise. Negli anni Settanta insegna, scrive poesie, cambia spesso città e lavoro: quell’instabilità diventa un laboratorio, un modo per osservare da vicino le forme che il potere e la dipendenza possono assumere. Tra un incarico e l’altro pubblica saggi, raccolte, esperimenti che le permettono di affinare la voce. Con Il racconto dell’ancella (1985) tutto cambia. Offred, costretta a procreare per le élite di Gilead, diventa l’icona di un tempo e di molti futuri. Quelle tuniche rosse, oggi, attraversano le piazze del mondo, da Washington a Varsavia, ogni volta che un diritto viene messo in discussione. Ha riscritto i miti con Il canto di Penelope (2005), immaginato un mondo post-apocalittico nella trilogia di MaddAddam (2003-2013), e nel 2019 è tornata a Gilead con I testamenti, vincendo di nuovo il Booker, stavolta condiviso con Bernardine Evaristo. In Le nostre vite ribalta ogni aspettativa, fa a pezzi il memoir “in distici eroici finto-ottocenteschi”, prende in giro i cliché delle saghe familiari, le scrittrici solenni e in posa e racconta invece gli insuccessi, le professioni precarie, i colleghi maschi che le spiegavano come scrivere. Una volta un poeta le disse: “Scrive come un uomo.” Lei rispose: “Hai dimenticato la punteggiatura. Forse intendevi: scrive. Come un uomo.” Rievoca il gruppo Broadside, costellazione di poetesse e attiviste che negli anni Sessanta univano parole e politica. Lei frequentava l’ambiente ma restava ai margini: “Erano donne informate su quello che succedeva alle donne, ma io avevo bisogno di scrivere, non di proclamare.”
Nel memoir Atwood si moltiplica: ballerina di tip-tap, rock’n’roller, cattiva dattilografa che conclude Il racconto dell’ancella tra Berlino e l’Alabama. “Ci sono state tante immagini di me che nel corso degli anni si sono materializzate e poi svanite, alcune ordite da me, altre frutto di proiezioni altrui.” Sa ridere di sé, e questa è la sua forma di serietà. Oggi continua a muoversi con la stessa curiosità lucida e parla di clima e libertà con la calma di chi ha imparato che la paura è un buon materiale narrativo. La bambina che parlava coi biscotti è ancora lì, dentro la scrittrice che sorride dietro gli occhiali.
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