La storia delle Guerrilla Girls. Intervista Alice Neel, componente del gruppo originale 

Le dicevano di sorridere. Lei ha dipinto la verità. 
Le suggerivano di stare zitta. Lei ha risposto con manifesti attaccati nella notte. 
Dicevano che l’arte non è politica. E lei ha messo una maschera da gorilla per farla urlare. 

Chi sono le Guerrilla Girls 

Fondate nel 1984 a New York da sette artiste, le Guerrilla Girls sono un collettivo femminista, intersezionale e anonimo nato in risposta alla mostra An International Survey of Recent Painting and Sculpture organizzata dal MoMA, che su 169 artisti invitati includeva solo 13 donne. Il gruppo ha scelto di operare nell’anonimato, indossando maschere da gorilla e firmandosi con nomi di artiste del passato. Le loro armi: poster, dati statistici, libri, affissioni notturne, ironia spietata. Il bersaglio: la discriminazione di genere e razza nel sistema dell’arte. 

Guerrilla Girls: la storia di Alice Neel 

Il loro linguaggio, visivo e testuale, fonde umorismo e denuncia. Una militanza artistica che, a quarant’anni di distanza, continua ad agire dentro e fuori le istituzioni. 
Tra le sue fila, una di loro si firmava Alice Neel. Oggi sappiamo chi era.  Dietro la maschera e lo pseudonimo si celava Robin Tewes, pittrice newyorkese di straordinaria coerenza e rigore. 
Mentre partecipava alle azioni delle Guerrilla Girls, Tewes costruiva una traiettoria artistica personale, profondamente intrecciata alle istanze del collettivo ma autonoma nel linguaggio. I suoi primi dipinti – interni domestici realistici, quasi fotografici – erano paesaggi mentali abitati da silenzi e assenze. Col tempo, quelle stanze hanno iniziato a parlare: parole scritte sui muri, pensieri non detti, confessioni visive. Con una delicatezza tagliente, la sua pittura esplora la psicologia del quotidiano, in particolare femminile, trasformando l’ordinario in un campo di tensione emotiva e politica. 

Chi è Robin Tewes 

Il suo lavoro è stato esposto in istituzioni come il MoMA, il Whitney Museum, il Drawing Center, e in gallerie internazionali, tra cui la Leake Street Gallery di Londra e la Headbones Gallery in Canada. È rappresentata dalla Adam Baumgold Gallery di New York. Nel 2016 è stata inclusa negli archivi dello Smithsonian Institution. Ha ricevuto riconoscimenti come il Pollock-Krasner Foundation Award, la Gottlieb Foundation Fellowship, ed è stata artista residente in numerosi programmi in Nord America. Parallelamente, ha insegnato alla Pace University e ha lavorato come visiting artist in accademie in Europa e negli Stati Uniti. Robin Tewes non è soltanto una Guerrilla Girl storica. È una pittrice che ha saputo dare forma al dissenso, all’intimità e alla verità. La sua arte, come la sua militanza, è una lunga dichiarazione di esistenza. Oggi, finalmente, possiamo vederne il volto. E intervistarla. 

Intervista a Alice Neel (Robin Tewes) 

Non la conoscevo. Per me, Alice Neel era solo una maschera: quella scelta da una Guerrilla Girls. È solo adesso, parlandoti, che capisco chi c’è dietro quel nome. Tu, Robin. La donna che lo ha assunto come atto politico, come omaggio, come dichiarazione di appartenenza. Perché hai scelto proprio il nome Alice Neel? 
Esponevamo entrambe al Downtown Whitney Museum nella mostra Portraits on a Human Scale nel 1983. Per me, giovane pittrice, fu un onore incontrarla: lei era già un faro. 
Nessuno dipingeva come lei, allora. Nei suoi ritratti c’era qualcosa di tagliente, non idealizzava né abbelliva. Rivelava. 
Soprattutto quando ritraeva donne: c’erano forza, vulnerabilità, vita vera. 

È diventata una maschera o una bandiera? 
Entrambe. Era un’armatura e un’alleanza. L’arte, allora, era un club chiuso, costruito da e per uomini. Le donne non venivano solo ignorate: venivano attivamente cancellate. Scegliere il suo nome era un modo per dire: io non solo ci sono, ma vengo da una genealogia di donne che hanno rifiutato di sparire.  

Come nacquero le Guerrilla Girls? 
Non da un manifesto teorico, ma da una ferita. Nel 1984, Il MoMA organizzò una mostra con 169 artisti. Solo 13 erano donne. Nessuna persona nera. Nessuna spiegazione. Nessun imbarazzo. Solo indifferenza istituzionale. Un piccolo gruppo di donne si riunì in segreto. Niente fondi, niente inviti stampa. Solo furia. Ma non volevamo protestare a nome nostro. I nostri veri nomi sarebbero stati sminuiti, ridicolizzati. Così scegliemmo i nomi di artiste defunte. 

Quanto contava l’appartenenza al movimento femminista? 
Era tutto. Non ci chiamavamo “attiviste” o “femministe” per moda. Lo eravamo nei nostri corpi, nelle nostre carriere negate, nei nostri stipendi più bassi. L’arte femminista ci aveva precedute: Judy Chicago, Faith Ringgold, Ana Mendieta. Noi abbiamo scelto un’altra strada: la guerriglia visiva. Una forma nuova di sorellanza

L’umorismo era una tattica o una necessità? 
Sempre una tattica. Nessuno ascolta una predica. Ma prendi il potere e lo ridicolizzi con dati inconfutabili e battute visive? Ti entra sottopelle. L’umorismo ti rende memorabile. I numeri ti rendono inoppugnabile. 

Cosa dicevano gli uomini artisti? 
Spesso si sentivano attaccati. Anche quelli che si dicevano “progressisti”. Ma alcuni ci aiutavano. Appendevano i nostri poster nei loro studi. Senza visibilità, senza chiedere nulla in cambio. 

Che tipo di azioni facevate? 
Ci riunivamo nelle nostre case, spesso nella mia. Poi, di notte, uscivamo ad attaccare i nostri poster con spazzoloni e colla di farina, soprattutto a Soho, dove si concentravano le gallerie. 
C’erano luoghi da cui eravamo escluse — e altri in cui sceglievamo di restare anonime. 

Guerrilla Girls, Do we have to get naked, fotografia dell'artista
Guerrilla Girls, Do we have to get naked, fotografia dell’artista

Col tempo cosa è cambiato? 
Il gruppo è cresciuto. I musei che avevamo criticato hanno iniziato a collezionare i nostri manifesti. Sono arrivate nuove generazioni, nuove battaglie: razza, classe, identità di genere, orientamento sessuale. Ma anche tensioni. Alcune volevano mostrarsi, uscire allo scoperto. Io ho scelto il silenzio. Dal 2002 ho smesso di partecipare. Ma non ho mai smesso di osservare. Né di creare. 

Alla fine dell’intervista, le ho detto: 
“Incontrarti ha significato riconoscere un’eredità viva. Quella di chi ha trasformato la rabbia in strumento, l’arte in lotta, l’anonimato in alleanza. Non ci serve sapere tutti i nomi. Ma abbiamo bisogno di sapere chi dobbiamo ringraziare.” 
Lei si è commossa. 

Antonino Vela 

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L’articolo "La storia delle Guerrilla Girls. Intervista Alice Neel, componente del gruppo originale " è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

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