La poesia di Gaza come resistenza: questi versi colpiscono più di un rapporto sul genocidio
- Postato il 12 maggio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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“Non c’è luce nella mia prigione / né sole né finestra / Non c’è nulla qui / Tranne il carceriere… una porta e le manette / Ho chiuso gli occhi ed è giunta la luce / Dall’amore per la mia patria nascono le cose / L’amore in prigione è la mia libertà / E la passione nella mia prigione è cielo / Sono in isolamento / E le penne sono vietate / Né inchiostro né carta / Il cuore scrive memorizza i versi / La poesia in prigione è luce e fuoco / La poesia nella mia prigione è nutrimento / È acqua e aria”.
Che scrivere versi sia una forma di resistenza nelle situazioni più disperate è un fatto noto: hanno resistito ad anni di detenzione senza accusa né processo i detenuti di Guantánamo e, in Egitto, Ahmed Douma.
La conferma più estrema arriva dalla Striscia di Gaza, dove grazie a una serie di contatti – le cui difficoltà sono facilmente immaginabili – un gruppo di curatori italiani ha raccolto 32 poesie di poeti e poete gazawi, li ha fatti tradurre a Nabil Bey Salameh dei Radio Derwish e li ha consegnati a Fazi Editore, che ha pubblicato Il loro grido è la mia voce.
Questi versi vengono letti in questo periodo in importanti occasioni, dal palco del concerto del 1° maggio a Taranto al premio Terzani al festival Vicino/Lontano di Udine fino alla giornata del 9 maggio dedicata a Gaza. Colpiscono, quasi più di un rapporto sul genocidio israeliano nella Striscia di Gaza, per le emozioni che riescono a trasmettere e per le immagini che riescono a evocare.
C’è dolore senza rancore, c’è quella parola araba così intraducibile se non impoverendola che è sumud (adattandola al contesto, potremmo tradurla: resistenza al futuricidio), c’è l’appello a noi ad ascoltare e agire e c’è la solidarietà con chi nel mondo e soprattutto negli Usa, pagando spesso col carcere o con altri provvedimenti repressivi, ha manifestato per la Palestina nelle università e nelle strade.
Come evidenzia lo storico israeliano Ilan Pappé nella prefazione, “scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza e nella resilienza palestinesi (…) è impossibile non cogliere il grido di protesta per la vita e la rassegnazione alla morte, inscritte in una cartografia disastrosa che Israele ha tracciato sul terreno”.
Come sottolinea Nabil Bey Salameh, “questa raccolta non è solo un lamento, è un invito a vedere, a sentire, a vivere. Le poesie qui tradotte portano con sé il suono delle strade di Gaza, il fruscio delle foglie che resistono al vento, il pianto dei bambini e il canto degli ulivi. Sono una testimonianza di vita, un atto di amore verso una terra che non smette di sognare la libertà. In un mondo che spesso preferisce voltare lo sguardo, queste poesie si ergono come fari, illuminando ciò che rimane nascosto”.
C’è da sperare, come scrive sempre Pappé, che “questa raccolta contribuirà in qualche misura a erodere lo scudo di silenzio e di disinteresse che garantisce immunità ai responsabili del genocidio a Gaza”.
La poesia con cui inizia questo post è di Dareen Tatour, poeta e fotografa di Rafah, autrice della poesia “Resisti o popolo mio, resisti loro”, condannata dalle autorità israeliane per la volutamente errata traduzione di un termine arabo, fatta da un poliziotto israeliano, che l’ha giudicato apologia di terrorismo.
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