“La montagna che vogliamo”, il libro-manifesto di Marco Albino Ferrari per progettare il futuro (in senso ecologista)
- Postato il 24 giugno 2025
- Ambiente
- Di Il Fatto Quotidiano
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Val di Fiemme. La tempesta Vaia schianta due milioni di alberi, principalmente abeti rossi. Qualche anno dopo il bostrico infesta i boschi e divora dai 500mila agli 800mila pecci. Sono più di due milioni di metri cubi di legname. È devastante. Passata la gestione dell’emergenza, poi la bonifica forestale, tocca alla riforestazione. Immaginate: dove viene ritenuto opportuno – non ovunque – vengono messe a dimora centinaia di migliaia di piante. A stare bassi, 15 euro ad arbusto. Ma i frutti della messa a dimora, quando si vedranno? Quando si potrà beneficiare di quella legna, quando si avrà il ritorno dei 15 euro investiti? Se va bene, tra 80 anni. Non fa impressione pensare di impiegare denaro oggi – nel caso della Magnifica Comunità della Val di Fiemme, si tratta di denaro di privati – per ottenere i dividendi tra quasi un secolo? Sì, è impressionante. Perché nessuna persona al lavoro sui boschi trentini (o delle Alpi, in generale) godrà dei frutti del proprio lavoro. Semmai lo faranno i figli, più probabilmente i nipoti. “E allora cosa spinge qualcuno a investire capitali tanto ingenti a beneficio di chi non conosce, di chi verrà? E quali altri investimenti, in qualsiasi ambito economico, generano rendimenti a così lungo, lunghissimo termine? Nessuno. E ancora, perché qui si investe sulle future generazioni, quando ovunque i rapporti intergenerazionali sembrano dissolversi? Infine, perché lo sguardo a lungo termine lo ritroviamo in montagna e non in pianura, non in città, non altrove?”.
C’è un luogo che vale la pena salvare, prima che sia troppo tardi. E che forse, più di altri – lungi dallo scrivente offrire la solita, fuorviante dicotomia tra naturale e artificiale, ma se la città è il simbolo di un certo sistema socio-economico è fuor di dubbio che sia il simbolo di un fallimento – questo luogo offre una possibilità per farlo. La montagna che vogliamo è il nuovo libro-manifesto di Marco Albino Ferrari, edito da Einaudi (13 euro, 129 pp). Il punto di partenza è che le terre alte sono “grandi vuoti umani accanto a pieni straripanti”. Da una parte ci sono i comuni periferici e ultraperiferici, segnati dall’abbandono e dallo spopolamento; dall’altra – e magari accanto ai primi – c’è la “montagna ludica”, con le piste innevate e una pressione antropica insostenibile. L’una e l’altra hanno bisogno di ripensare il proprio presente.
Ferrari parte dalla Val di Fiemme, percorre gli 8mila chilometri del Sentiero Italia, dalle Alpi agli Appennini, dalle Tre Cime di Lavaredo alle Madonie e ci mostra ciò che non va più. Come le aree del fu turismo di massa legato alla monocultura dello sci, riassumibili nella formula “denaro pubblico, profitti privati, danni collettivi”. Ci mostra lo spopolamento delle aree interne (fenomeno che colpisce anche quelle interessate dall’overtourism) in cui risiedono più di cinque milioni di italiani; che, però, sono abbandonati dalla politica, salvo quando si avvicina una scadenza elettorale. E poi la “borgomania”, il culto dei borghi, che fa dei centri abitati una versione patinata di un passato estetizzato (e che non risponde ai bisogni delle persone).
Perché sia un libro-manifesto che si rispetti, però, devono esserci delle proposte, una visione. Forse, addirittura, delle ricette. Ecco allora che Ferrari ci mostra gli esempi virtuosi a cui guardare, sia in Italia sia all’estero (in Francia, soprattutto, nella gestione dei parchi, nella creazione del bar-multiservizi, col progetto Groupe SOS). Ed ecco l’idea di una nuova economia (e società) che punti sul legname, coi servizi ecosistemici che si porta dietro (la follia, tutta italiana, è che l’80% del legno utilizzato nel nostro Paese venga dall’estero); c’è una “grande operazione di pianificazione forestale nazionale” che porterebbe reddito ai piccoli paesi; un nuovo approccio alla comunità, intesa come “comunità di intenzione, il cui collante è dato da un obiettivo di scopo, dal fare, dalla creazione di interessi condivisi”. E ancora: l’idea che la città sarà “sempre meno il luogo di una vita intera, sarà sempre più un polo di servizi, da abitare il tempo necessario” e che allo stesso tempo la montagna possa tornare a vivere, a patto che sia messa nella condizione di farlo. Con un programma a lungo termine, una fiscalità agevolata, una burocrazia su misura che riguardi urbanistica, catasto, agricoltura, trasporti, associazionismo fondiario). E poi, naturalmente, il turismo. Che sia dolce, che punti sulle differenze e sulla vivibilità dei luoghi. Perché “non ci interessa il borgo più bello, ci interessa che ogni paese abbia un negozietto. Ci interessa che ogni paese sia un luogo dove poter far nascere bambini“. Gli esempi a cui guardare in questo senso in Italia? Val Maira, Valpelline, Valle di Funes, Castel del Giudice, Succiso.
La montagna si salva solo avendo bene in mente il limite, la misura. Soltanto così potrà rinascere, rispondere ai grandi cambiamenti in atto che la stanno investendo (compresa la crisi climatica) e continuare a garantire i numerosi servizi ecosistemici a chi vive più a valle. Alle pianure e alle città.
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