La missione della Flotilla mi ha fatto riflettere sul concetto di martirio
- Postato il 2 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Global Sumud Flotilla evoca in me più o meno coscientemente, ma con forti riverberi inconsci, il concetto di martirio. Quando parlo di inconscio intendo una parte della mente che opera al di fuori della coscienza che però fornisce alla parte mentale che conosciamo spunti emotivi, sensitivi e brandelli di ragionamento sfuggenti.
Cosa è il martirio? Si tratta di una parola spesso usata a sproposito ma nella sua vera essenza, derivante dal greco, trae il significato dai termini testimone e testimonianza. Chi si sottopone al martirio lo fa per testimoniare una verità. I punti cruciali che risultano necessari sono: 1. Che la persona o le persone siano consapevoli del fatto che attraverso la loro testimonianza esiste il rischio o la certezza della morte, 2. Che accettino questo rischio e anzi rifiutino ogni possibilità di evitarlo se questo significa rinunciare alla propria verità, 3. Che effettivamente inducano gli aggressori a ucciderli perdendo in questo modo, attraverso questa aggressione, la loro forza morale. Il martire non si suicida ma si mette nelle mani del possibile carnefice per indurlo a mostrare il suo volto brutale e disumano. I martiri fanno molta paura ai potenti perché, smascherandoli, offrono al popolo la loro vera immagine. Spesso avviene che il popolo, in qualche modo, segua la bandiera issata dal martire per togliere il potere al potente che lo ha martirizzato.
Il martirio per eccellenza nella nostra cultura è quello di Gesù di Nazaret che conosce perfettamente il suo destino, rifiuta le scappatoie che Ponzio Pilato gli offre per cercare una via di fuga e, in questo modo, si impone come bandiera contro la cattiveria degli uomini per portare la sua testimonianza.
Nelle parole del capo dello Stato italiano e di molti commentatori mi è parso di udire di nuovo esortazioni ragionevoli di moderni Pilato che chiedono al possibile martire: “Ma chi te lo fa fare? Troviamo una mediazione, un qualche tipo di soluzione”. Purtroppo a questo punto della vicenda una qualsivoglia ragionevole mediazione tipo fornire gli aiuti al vescovo cattolico significherebbe perdere il valore di testimonianza. I detrattori sono pronti a schernire, ad affermare “Vedete i grandi valori dove approdano? Di fronte alla fermezza di Israele si sono squagliati”. E invece io ho timore per gli uomini e le donne intercettati su quelle imbarcazioni.
Mi rendo conto che dal mio studio, al sicuro, è facile discettare di martirio, di testimonianza e di verità. Molto arduo essere stati su quelle navi con i timori, le angosce e i dubbi che hanno attanagliato i partecipanti.
Non so come andrà a finire questa vicenda ma sento, anche qui come percezione non del tutto cosciente, che la situazione è complessa come quando il giovane sconosciuto definito successivamente “Tank man” sfidò in camicia bianca un carro armato in piazza Tienanmen nel 1989. In quel caso lui non venne travolto ma nei giorni successivi migliaia di manifestanti, fra cui forse anche lui, furono uccisi.
Quando in ballo non c’è più solo la nostra vita ma una bandiera, una testimonianza di verità, diventa difficile trovare una soluzione per cui ognuno di noi può solo chiudersi in preghiera. La preghiera sarà diversa a seconda che vi sia una fede o un anelito di verità ma mi pare l’unica speranza umana in un momento come questo in cui la follia pare prevalere. La preghiera non è un atto sterile di richiesta ma una fonte concreta di cambiamento del nostro animo che ci induce come collettività a prendere delle posizioni che possono mutare il corso della storia.
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