La beatificazione di Gaudí è solo l’ultimo passo di un’operazione di marketing travestita da devozione

  • Postato il 18 aprile 2025
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La recente dichiarazione di Antoni Gaudí come “venerabile” da parte della Chiesa cattolica merita uno sguardo critico più che un’agiografia sentimentale. Non si canonizza tanto l’uomo, quanto una proiezione romantica e semplificata della sua architettura.

Famoso per l’incompiuta Sagrada Família, a cui lavorò incessantemente dal 1882 fino alla morte, l’apice della sua produzione coincide con il progressivo ritiro dalla scena pubblica: da giovane mondano e anticlericale, si trasformò in un asceta devoto, dedito a un fervore mistico. Ma l’immagine dell’“architetto di Dio” e artigiano del sacro banalizza il suo vero contributo, riducendolo a un’icona pop senza complessità, funzionale all’immagine turistica di una Barcellona fatta di colori, draghi di ferro, lampioni con elmi alati e conchiglie.

La vera grandezza di Gaudí sta nell’aver creato un linguaggio autonomo pur non riuscendo a decodificarlo, come osserva Bruno Zevi. Integrò forme organiche in strutture rigorose, anticipando soluzioni tecniche di grande modernità. Usò materiali poveri con inventiva, come nel trencadís, mosaico realizzato con scarti ceramici. Ogni suo progetto era concepito come un’opera totale, in cui struttura, funzione e decorazione formavano un tutt’uno coerente e visionario.

Le sue opere traboccano di invenzioni formali: tunnel a paraboloidi iperbolici, muri lavici, balconate taglienti e scavate, grovigli di ferri ritorti, camini che si avvitano nel cielo, volumi esuberanti, facciate ondulate ed escrescenze fantastiche; sedili serpeggianti incrostati di frantumi di maioliche. Non si tratta di eccesso fine a se stesso, ma di una poetica coerente che trasforma la materia in racconto.

Eppure oggi assistiamo alla sua beatificazione – senza miracoli, ma con alta resa mediatica. Juan José Lahuerta, autore di Antoni Gaudí. Fuego y cenizas (Tenov), scardina la figura idealizzata del genio isolato e mistico, rivelando invece un uomo perfettamente integrato nel contesto internazionale dell’epoca, parallelo a William Morris e al movimento Arts & Crafts in Inghilterra, a Viollet-le-Duc in Francia, e organico alla borghesia catalana e al potere ecclesiastico. Gaudí, infatti, ebbe come mecenate l’industriale Eusebi Güell, per cui progettò il Palau Güell, il Park Güell e un tempio per la sua colonia industriale. Dopo Güell, vennero i Batlló e i Milà con le loro residenze lussuose sul Paseo de Gràcia.

Morì nel 1926, travolto da un tram, lasciando la Sagrada Família incompiuta. Quella che doveva essere una basilica votiva si è trasformata in un cantiere eterno, un’icona iperreale che condensa visione, polemica, genio e pastiche. Da quasi un secolo, ciò che si costruisce “nel nome di Gaudí” è una versione arbitraria di disegni e modelli perduti nell’incendio del 1936. Come ha dichiarato Oriol Bohigas, è una “barbarie culturale”. Eppure si continua. Si abbattono edifici, si sfrattano residenti per fare spazio a una scalinata monumentale che Gaudí probabilmente non avrebbe mai voluto. Perché? Perché la Sagrada Família non è più un luogo di culto, ma una macchina da soldi: attira milioni di visitatori ogni anno, alimentando un’industria turistica che da sola vale il 19% del Pil catalano.

La beatificazione di Gaudí, quindi, non è che l’ultimo passo di un’operazione di marketing travestita da devozione. Non lo rende più grande, lo rende più vendibile. Serve a consolidare il mito e a moltiplicare i flussi. È il trionfo dell’immagine sull’analisi, del santino sul progetto, dell’icona sul pensiero critico. Il vero miracolo di Gaudí non è la sua presunta santità, ma la capacità di aver trasformato la pietra in un’eterna macchina del profitto, ben oltre la sua morte.

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Il Fatto Quotidiano

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