Intervista a Peppe Barra che ha portato in scena a Palermo la sua autobiografia
- Postato il 11 agosto 2025
- Teatro & Danza
- Di Artribune
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A 81 anni Peppe Barra è una delle voci più autentiche e vitali di Napoli. Se Hollywood ci ha abituati a immaginare la fine carriera delle star come un Sunset Boulevard, triste e malinconico, Barra incarna invece un tramonto ardente, di quelli sul mare che incendiano i cieli. Sul suo viale, i ricordi sono linfa viva, non fantasmi. Figlio del fantasista Giulio Barra e della straordinaria Concetta Barra, nasce tra Procida e Napoli, dove impara a trasformare ogni parola in corpo, ogni gesto in teatro.

La vita di Peppe Barra tra teatro, musica e cinema
Dopo gli esordi con Gennaro Vitiello e la Nuova Compagnia di Canto Popolare, conquista la scena con La Gatta Cenerentola di De Simone, pietra miliare della tradizione reinventata. Saranno in tutto circa 70 spettacoli teatrali, oltre 24 album discografici e quasi 20 apparizioni cinematografiche e televisive. In scena porta a Lengua Serpentina, viaggio nella lingua come incantesimo, e L’Opera da tre soldi, che proietta Brecht nei vicoli napoletani con ironia e pietas. Al cinema, dopo i memorabili iniziali Giallo napoletano e La pelle, torna in Passione di John Turturro, dove è l’anima pulsante della Napoli musicale, e in Napoli velata di Özpetek, dove incarna la potenza enigmatica del mito.
Peppe Barra e il suo spettacolo autobiografico a Palermo
É un rito di trasmissione, una messa laica in cui arte e vita si fondono Buonasera a tutti. Dai miei disordinati appunti, l’ultimo spettacolo di Peppe Barra, in scena alla GAM di Palermo per il Teatro Biondo. Barra, accompagnato dal pianoforte complice di Luca Urciuolo, ripercorre gli anni iniziali di una vita spesa sulla scena, come una maschera napoletana in carne ed ossa. Ogni episodio scatena la sua voce imbizzarrita tra memorie, affetti, sconcezze e sfottò, attraversando i registri più diversi, passando dalla barocca eleganza di etnografi come Basile al sarcasmo dei vicoli partenopei. Uno spettacolo essenziale, ironico e struggente. Con standing ovation.





Intervista a Peppe Barra dopo il debutto alla GAM per il Teatro Biondo di Palermo
Caro Peppe, lo spettacolo che porti in scena raccoglie il senso di un lungo percorso.
Per raccontarlo tutto, servirebbe uno spettacolo di cinque ore, così ho scelto di condensarlo nei ricordi familiari, tra infanzia e adolescenza, in un percorso poetico tratto dai miei appunti, anche i più folli.
La follia ha sempre attraversato il tuo modo di fare teatro, anche se diversamente da altri amabili “folli” come Bene, Artaud o Pirandello.
Io e mamma abbiamo sempre amato il teatro della follia. Ci piaceva sorprendere il pubblico con quel pizzico di assurdo che diverte. Ma va dosata, ci vuole misura, anche nella follia.
Qual è l’eredità più importante che ti ha lasciato tua madre?
L’umiltà. Era una donna semplice, immediata. Mi ha trasmesso luce, arte e verità.
In scena com’era?
Molto severa, pretendeva rigore assoluto. Una volta mi diede uno schiaffo: avevo riso mentre lei inciampava in scena. Non lo accettò.
Di solito, dagli Scarpetta in poi, il teatro è un mestiere che si tramanda di padre in figlio.
Noi eravamo unici e spesso ci scambiavamo i ruoli: io facevo il padre e lei la figlia, oppure io diventavo la madre e lei mio figlio, era un gioco intimo e poetico che coinvolgeva anche il pubblico.
Quando nasce questa complicità?
Quando nasco io, nel 1944 a Roma. Mamma e papà stanno provando uno spettacolo al Teatro Valle, mamma lavora incinta. Poi un giorno le si rompono le acque sulla scena, la portano in fretta e furia in una clinica in Piazzetta dei Crociferi, di fronte alla Fontana di Trevi, e lì nasco. I miei primissimi ricordi sono nebulosi, ma ancora vivissimi, soprattutto il suono ed il riverbero dell’acqua della Fontana di Trevi che riflette i suoi giochi sul soffitto della stanza; è il mio primo teatro: una culla d’acqua e di echi.
A quale ricordo di tua madre ti senti più legato?
Da bambino volevo un teatrino, ma non c’erano soldi, papà aveva lasciato il teatro, così mamma me lo costruì usando una cassetta della frutta; disegnò le scene, i costumi ed i burattini, a cui fece le testine con dei noccioli di albicocca rivestiti di stoffa, con gli occhi disegnati con il corallo e capelli veri, presi dal ciuffo che si tagliò. Purtroppo, l’ho perduto in un trasloco. Fu un gesto d’amore straordinario, per me e per il teatro.
Dopo la fine della guerra, la tua famiglia si spostò a Procida.
Avevo quattro anni ed è proprio lì che ho vissuto il mio primo incontro con il teatro. All’epoca era un’isola piena di preti e di chiese, e nelle chiese si faceva teatro. Si celebravano messe cantate, con abiti talari ricchi di colori, luci, ori; c’era il fumo dell’incenso, il profumo della cera. Tutto era liturgia, ma per gli occhi di un bambino era pura meraviglia. Quel mondo mi ipnotizzava. Mi ricordo il senso sacro e spettacolare di quei momenti: per me era già teatro.
Teatro, cinema e televisione: come li vivi?
Sono tre linguaggi diversi. Il teatro ha un suo codice, misterico e sacrale, il cinema un altro e la televisione, un altro ancora. Spesso capita di trovare negli spettacoli teatrali questi linguaggi che si sono imbastarditi. Il linguaggio teatrale, per esempio, diventa un linguaggio televisivo e non è giusto, non lo capisco e non mi piace. Anche se mi può divertire, ma non è poetico; il teatro ha un linguaggio prorpio, anche misterico e sacrale.
Segui ancora la TV?
No. Ho Netflix, Disney+, ma la televisione italiana non la guardo più. A volte rivedo le cose che ho fatto, sembra narcisismo, ma è anche un modo per riguardarsi con occhi nuovi.
Hai visto l’ultimo film dedicato a Napoli, Partenope di Sorrentino?
No. Io ho girato Passione con la regia di John Turturro, dove un italiano americano parla di Napoli con eleganza, con poesia.
Com’è oggi Napoli, per te?
Eh, non farmi dire… è molto cambiata, non è la città che conoscevo da bambino. Il turismo è diventato troppo esagerato, troppo pieno, troppo ricco, troppo troppo. Era meglio vent’anni fa, c’era quel turismo un po’ d’élite, curioso, che faceva piacere, oggi vengono solo per mangiare. Si perdono l’anima. Vanno a vedere il murales di Maradona e fanno la fila da Sorbillo ma non è giusto, Napoli offre tanta poesia, cultura, bellezza. Ecco me l’hai fatto dire, non volevo, ma è la verità.
Nicola Davide Angerame
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L’articolo "Intervista a Peppe Barra che ha portato in scena a Palermo la sua autobiografia " è apparso per la prima volta su Artribune®.