Intervista a Manuel Gualandi, il pittore che è entrato nella ‘Tempesta’ di Giorgione 

A Venezia confrontarsi con il passato non è mai un gesto neutro. Per un artista come Manuel Gualandi, formatosi tra le aule e le collezioni delle Gallerie dell’Accademia, l’eredità dei maestri antichi non è un peso, ma una forza da abitare e attraversare. Il passato non lo guarda con nostalgia, ma come qualcosa che continua a vibrare nel presente. La sua pittura nasce proprio da questa tensione, un cortocircuito emotivo, uno slittamento della memoria visiva che si trasforma in gesto contemporaneo. 

Il rapporto viscerale di Manuel Gualandi con la celebre opera di Giorgione a Venezia 

C’è qualcosa di profondamente silenzioso e allo stesso tempo perturbante nel modo in cui Gualandi affronta La Tempesta (1506-08 ca) di Giorgione. Silenzioso come la distanza tra l’uomo e la donna dipinti sullo sfondo di un paesaggio incerto, sospeso. Perturbante come il gesto di chi non si accontenta di guardare, ma attraversa l’immagine con il corpo e la pittura, fino a smontarla. Quando lo incontriamo, a mostra conclusa, Gualandi non parla di citazione, né di omaggio. Anzi, rigetta la tentazione di decifrare: “non è un dialogo, è un corpo a corpo”, dice con calma, quasi fosse un fatto ovvio. Eppure, questo corpo a corpo, culminato nello spazio intimo e poroso di SPARC* a Venezia, ha dato vita a un percorso espositivo che somiglia a una discesa nell’invisibile. 

Manuel Gualandi, Dentro la Tempesta, 2025, SPARC Venezia, foto Nico Covre
Manuel Gualandi, Dentro la Tempesta, 2025, SPARC Venezia, foto Nico Covre

La pubblicazione nata dalla mostra “Dentro la Tempesta” di Manuel Gualandi 

Non è un caso che tutto questo accada a Venezia, dove il rapporto con la storia non è mai stato lineare, ma stratificato, a volte interrotto e poi ripreso, come i pigmenti su una tela antica. Le Gallerie dell’Accademia, con la loro concentrazione vertiginosa di capolavori, rappresentano da sempre un laboratorio a cielo aperto per chi decide di dipingere in questa città. E in questo contesto, il lavoro di Gualandi – da cui nasce un’omonima pubblicazione, portata sugli scaffali da art-frame BOOKS – si colloca come una riflessione viva sul modo in cui il passato continua ad agire nel presente, non per essere ripetuto ma attraversato, smontato, messo in discussione. 

Intervista a Manuel Gualandi 

Cosa ti spinge a tornare al passato, a confrontarti con un’opera che resiste al tempo e al significato? È un gesto di scavo, di ascolto, di perdita? 
Per me non si tratta di tornare al passato, piuttosto direi che si è trattato di una fascinazione verso un’opera del passato che ho sentito, per qualche ragione, attuale. Attuale per me, per il mio sguardo e la mia esperienza. È vero che si tratta di un’opera che resiste al tempo, sia da un punto di vista visivo pittorico, sia perché si presta ad essere ancora “scavata” e interpretata; tuttavia, il mio incontro con essa e il lavoro che ne è conseguito, dipendono più da un fatto emotivo e soggettivo. Ovvero riguardano ciò che La Tempesta ha detto a me in un determinato momento della mia vita e del mio lavoro di pittore. 

Nel tuo dialogo con La Tempesta, senti che il linguaggio simbolico e quello pittorico si appartengano a vicenda, o è nella loro frizione che nasce qualcosa di nuovo? 
Forse il mio non è un dialogo, ma un corpo a corpo. Nella prima fase del lavoro, con le variazioni, non c’è da parte mia un distacco intellettuale, ma la necessità di aggredire l’immagine della Tempesta; intendo proprio l’immagine, la riproduzione, che è cosa ben diversa dal dipinto. Questa esigenza è legata al tentativo di portare alle estreme conseguenze alcune “linee di forza” che io ho avvertito nel dipinto di Giorgione, la tensione sospesa in esso contenuta. Come ha scritto correttamente Daniele Capra nel suo testo in catalogo, dopo aver fatto molte letture a riguardo, io ho volontariamente ignorato la questione simbolica e interpretativa, per concentrarmi su aspetti più strettamente pittorici: l’atmosfera luminosa e cromatica, o l’eros sotteso e pure presente fra le due figure principali, che sono in primo luogo un uomo e una donna. 

L’enigma di La Tempesta non sembra chiedere una soluzione, ma una presenza. In che modo questo mistero ti ha guidato — o disorientato — nel tuo processo creativo? 
Sul piano razionale posso dire che il mistero che più mi ha coinvolto è quello della relazione muta e quasi segreta dei due protagonisti della scena. C’è un enigma nella Tempesta ma, altrettanto misterioso, è ciò che porta nel processo creativo verso determinate soluzioni o risultati, anche per agire del caso, o comunque di una serie di azioni non del tutto guidate dalla volontà. 

Quando hai iniziato a dipingere “dalla retina”, affidandoti alla memoria visiva più che al referente, che tipo di verità ha preso forma? Cosa resta di Giorgione quando scompare l’immagine? 
Di Giorgione, al termine di questo esercizio di riscrittura, penso rimanga ben poco. Ma questo potrebbe essere un bene: se il mio lavoro funziona è perché si è emancipato e reso autonomo rispetto al riferimento iniziale. Nella domanda è contenuta una parola impegnativa: verità. Io posso riferirmi unicamente a una verità soggettiva. Non mi sentirei però di dire che qui ho espresso un qualche tipo di verità, più realisticamente posso dire di essermi mosso in direzione di un contenuto pittorico per me significativo, probabilmente anche in mondo inconscio. Il paesaggio, o la finzione di uno spazio-corpo-paesaggio verso cui, come pittore, ho sentito attrazione, ha avuto per me una funzione simile a quella esercitata dalla forza di gravità; anche se il nostro intento è quello di staccarci da terra e allontanarcene è sempre verso di essa che siamo riportati e attratti, che lo vogliamo o no. 

La mostra segue un percorso di sottrazione, fino a dissolvere quasi ogni figurazione. In questa rarefazione, senti di avvicinarti a un’essenza della pittura o, al contrario, a un suo silenzio? 
Come avviene in musica, considero interessante quando al suono segue un silenzio, e viceversa. Così come i tempi musicali sono classificati in base al loro andamento, intensità, e velocità, anche in mostra si coglie un’alternanza di momenti con gradi di intensità differenti. I monocromi, a cui forse fai riferimento parlando di “sottrazione”, possono essere paragonati in musica a dei “pianissimo”. L’operazione intelligente del curatore è stata quella di alternare questi diversi momenti, musicali: forte – piano – pianissimo – di nuovo molto forte ecc., contribuendo così a creare un ritmo nelle sale dell’esposizione. 

Hai definito La Tempesta un “paesaggio psichico, un archetipo della visione”. Cosa significa, per te, abitare un archetipo senza cercare di raccontarlo? È un atto di fede nella pittura? 
È sicuramente un atto di fede nella pittura. Senza questo atto di fede, nessuna avventura pittorica potrebbe essere da parte mia intrapresa. Da sempre la pittura che mi interessa di più è quella che non racconta, ma che è in grado di “captare delle forze”, come scrive Deleuze a proposito dell’opera di Francis Bacon: “In arte, in pittura come in musica, non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, bensì di captare delle forze […] Il compito della pittura si definisce come il tentativo di rendere visibili delle forze che non lo sono. Allo stesso modo la musica si sforza di rendere sonore forze che non lo sono”. Per quanto riguarda il “paesaggio psichico”, per me La Tempesta non è solo un tempo atmosferico, ma uno stato dell’essere: questo allargamento di senso, mi ha lasciato aperto un campo di esplorazione affatto germinale.   

Laura Cocciolillo 

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Autore
Artribune

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