Il silenzio del gesto e l’arte come luogo interiore. Intervista alla pittrice Juliette Aristides
- Postato il 27 agosto 2025
- Arte Contemporanea
- Di Artribune
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In un’epoca in cui l’arte è sempre più chiamata a produrre senso in tempo reale, Juliette Aristides (Usa, 1970) compie un gesto spiazzante: ferma la corsa. Pittrice, docente e teorica del disegno classico, è oggi tra le voci più autorevoli del realismo contemporaneo. Ma la sua non è una difesa nostalgica della tradizione. È, piuttosto, un’offerta di spazio. Di silenzio. Di resistenza. Nei suoi atelier e nelle classi che tiene tra Seattle e l’Europa, Aristides ha formato generazioni di artisti. I suoi libri, a partire da Classical Drawing Atelier fino all’ultimo, The Inner Life of the Artist (Monacelli Press, 2024), sono diventati punti di riferimento per chi cerca nell’arte una disciplina e una vocazione. Non un manuale, ma una raccolta di riflessioni e immagini che rimettono al centro del discorso qualcosa di essenziale e fragile: la fatica, il dubbio, la dedizione. È un libro che scava. Che accompagna. Che non consola, ma resta.
La pittura di Juliette Aristides
La sua pittura è fedele a questa tensione: opere come Brushes, Silver Tin, Kitchen Table o Self-portrait non illustrano, ma suggeriscono. Restano in ascolto. Una giovane in abito scuro, un profilo che si ritrae, una stanza quasi vuota: ogni figura è il riflesso di un interno, non di una scena. È questa coerenza formale e spirituale ad averla portata a esporre al Maryhill Museum of Art, al Customs House Museum & Cultural Center (con Alan LeQuire) e in mostre personali come Life Work e Observations al Reading Public Museum. Tutti contesti che accolgono un realismo non decorativo, ma meditativo. Dopo la pandemia, per Aristides l’atelier è tornato a essere un luogo sacro. Non tanto per ciò che produce, ma per il tempo che custodisce. Aristides difende questo tempo: lento, imperfetto, esatto nella sua vulnerabilità. Come certi maestri italiani che lavoravano in silenzio, nell’ombra di una luce ferma. La sua pittura sembra appartenere a quella genealogia. Un dialogo che non cerca risposte, ma lascia aperte le domande. Così come i suoi quadri: forme che si offrono senza spiegarsi, resti silenziosi di un lavoro che accade altrove. Dove l’arte non serve per farsi vedere, ma per continuare a esserci. Anche quando nessuno guarda. L’ho incontrata nel suo studio dove la conversazione è diventata, a poco a poco, uno spazio condiviso.
Intervista alla pittrice e teorica Juliette Aristides
Nel tuo libro parli di arte come sopravvivenza. Non come mestiere, né missione. Un’espressione quasi eretica.
Oggi l’artista deve giustificare tutto: la visibilità, il numero di follower, la spendibilità del lavoro. Ma l’arte che conta, che resta, nasce da un’urgenza intima. Sopravvivere significa continuare anche quando il mercato non guarda, quando la voce si fa stanca. L’arte serve a restare vivi. Tutto il resto viene dopo.
Il tuo disegno sembra sempre in bilico tra la precisione e l’abbandono. Come se cercasse qualcosa che si sta perdendo.
Esatto. Il disegno, per me, non è una dimostrazione di bravura. È un modo per ascoltare. Come quando si resta fermi, e si sente arrivare una presenza. C’è un momento prima del segno in cui tutto è sospeso. È lì che voglio restare. Per questo anche l’imprecisione diventa importante. Perché porta con sé qualcosa che la perfezione, da sola, non conosce.
Scrivi: “L’anima non può essere imposta. Deve essere invitata.” Una frase rara oggi, eppure fondamentale.
Viviamo in una cultura che teme la profondità, perché è lenta, autentica, e ci espone. L’anima non produce. Non monetizza. Ma è l’unica cosa che rende l’arte davvero viva. E per farla emergere non si può correre. Bisogna attendere. Fare spazio. A volte, fallire. Non è spiritualismo: è attenzione.
Hai citato Rembrandt, Kollwitz, Rilke. Ma in alcune tue opere si percepisce anche una sensibilità italiana.
L’Italia è una presenza. La guardo da sempre. Morandi, ovviamente, ma anche Caravaggio, per la sua luce e il silenzio tagliente che lascia dopo ogni figura. Mi affascina come in Italia certe cose possano ancora esistere senza bisogno di essere spiegate. Come certi affreschi dimenticati. Respirano anche se nessuno li guarda.
Il ritorno alla figurazione di Juliette Aristides
Il tuo lavoro è spesso associato al “ritorno alla figurazione”. Ma le tue figure non sembrano tanto dire, quanto custodire.
È vero. Non cerco la narrazione. Cerco una soglia. Un punto in cui la presenza si fa visibile ma resta misteriosa. Non tutto va mostrato. Alcune cose vanno solo protette.
A chi è rivolto “The Inner Life of the Artist”?
A chi ha dubitato. A chi ha smesso di credere di “dovercela fare”. A chi lavora in silenzio, in studio, senza un pubblico. Non offre soluzioni. Offre una forma di compagnia. Una voce che dice: non sei solo. Anche se nessuno ti vede, il tuo lavoro conta.
Scrivi: “L’arte non si insegna, si sopravvive” È una frase che sembra ferita.
Lo è. Ma è anche una promessa. Ogni giorno in studio è una soglia: tra il fallimento e la possibilità. Non sempre nasce qualcosa. Ma sempre si resta. E quel restare, da solo, è già un atto radicale.
Hai girato il mondo, ispirato centinaia di artisti. Hai mai pensato di portare il tuo lavoro anche in Italia?
(Sorride) In realtà nel 2023 ci sono stata. Ho insegnato per un mese a Firenze, nel Florence Academy Masters Program for Educators, era la mia quinta volta a Firenze. È stato come tornare a casa senza averci mai vissuto. L’Italia è una promessa. Alcune cose devono maturare. Altre, semplicemente, accadere. Forse non è il momento. O forse è proprio questo. Spesso sono i luoghi a scegliere l’artista. Lascio che sia il disegno a condurmi.
Antonino La Vela
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L’articolo "Il silenzio del gesto e l’arte come luogo interiore. Intervista alla pittrice Juliette Aristides" è apparso per la prima volta su Artribune®.