Il second hand non è solo una moda. E ora anche i brand l’hanno capito

  • Postato il 17 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ricordate quando fare acquisti al cosiddetto mercatino delle pulci era “l’ultima spiaggia” a cui ricorrere, magari con un vago senso di vergogna, se non si avevano altre opportunità? A giudicare da quanto sono cambiate le cose, sembrano passati secoli. Oggi acquistare o vendere oggetti usati è un’abitudine che riscuote un successo trasversale, dalle famiglie con bambini agli influencer, con il settore della moda tra i protagonisti di questo exploit. Ed è un’ottima notizia, per l’ambiente e per le nostre tasche.

Cominciamo con qualche dato tratto dal 2025 Resale Report di ThredUp, uno dei principali siti di compravendita di vestiti e accessori second hand. Leggendolo si scopre innanzitutto che il mercato globale dell’abbigliamento usato nel 2024 è cresciuto di un altro 15% sull’anno precedente toccando i 227 miliardi di dollari. È ancora una frazione della spesa totale per l’abbigliamento, per la precisione il 9%, ma è una frazione che cresce a un ritmo 2,7 volte più rapido rispetto al mercato dell’abbigliamento nuovo. A quanto pare, inoltre, è qui per restare: da qui al 2029 gli analisti si attendono un tasso di crescita annuo composto (CAGR) attorno al 10% che porterà il totale a 367 miliardi di dollari. Sempre lo scorso anno, il 58% dei consumatori ha acquistato almeno un capo d’abbigliamento usato, in più della metà dei casi tramite e-commerce. E tra i giovani la percentuale arriva al 68%.

Comprare una giacca o una borsa usata significa, innanzitutto, evitare che quella stessa giacca o quella stessa borsa vengano prodotte consumando materie prime (naturali o sintetiche che siano), per poi essere trasportate da un capo all’altro del Pianeta. Potrà sembrare una banalità, ma è una risposta concreta al fenomeno della sovrapproduzione che è il primo, gigantesco ostacolo a qualsiasi iniziativa per la sostenibilità nella moda. Nel 2023 sono stati prodotti 15,5 chili di fibre tessili per ogni singolo abitante del Pianeta: un’enormità, tanto più perché nel 1975 ne “bastavano” 8,3. Questa crescita abnorme è frutto di un mix di fattori economici e culturali: con l’avvento del fast fashion il prezzo medio di ogni indumento è crollato e, dunque, ci siamo abituati ad avere i guardaroba pieni e sfoggiare outfit nuovi ogni giorno.

Grazie al mercato del second hand diventa un po’ più facile seguire il mantra della grande stilista Vivienne Westwood, Buy less, choose well, make it last. Perché è vero che i capi di qualità costano di più, ma – se il loro proprietario se ne prende cura correttamente – sono anche più durevoli e dunque possono avere una seconda vita, a un prezzo decisamente inferiore rispetto a quello di cartellino. Ma l’usato è anche un’ottima chance per accaparrarsi un oggetto un po’ particolare, che magari serve per uno spettacolo o una cerimonia. Per non parlare poi di bambini e ragazzi in crescita: oltre ai fratelli e cugini più grandi da cui ereditare body e tutine, oggi entrano in gioco anche piattaforme in cui acquistarli con pochi clic.

A un primo sguardo, il mercato dell’abbigliamento second hand può sembrare un’alternativa rispetto ai siti e ai negozi dei brand o, addirittura, una minaccia per il loro business. Non è del tutto vero. Sempre dal rapporto di ThredUp si scopre che l’80% dei dirigenti del settore retail teme che la propria catena di fornitura sia messa in crisi dall’introduzione dei dazi e il 44% sta cercando di ridurre la propria dipendenza da beni importati. Ai loro occhi, attivare una piattaforma di rivendita è un’opportunità per ottenere entrate più stabili e prevedibili: lo pensa il 56% del campione.

I brand più lungimiranti, infatti, non vedono il second hand come un nemico da combattere, ma come un tassello da integrare nella propria strategia. Lo fanno aprendo canali ufficiali, offrendo crediti per il riacquisto dei capi usati o collaborando con piattaforme dedicate. Un approccio che giova anche ai consumatori, perché hanno la garanzia di acquistare prodotti autentici e controllati, tutto questo risparmiando ed evitando di alimentare acquisti low cost spesso di brevissima durata e prodotti attraverso filiere non responsabili.

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Il Fatto Quotidiano

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