Il Ponte sullo Stretto è una torta che fa gola. Ma anche se si facesse, non unirebbe nulla
- Postato il 4 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Alberto Minnella
Qui in Sicilia, per andare da una città all’altra, si parte con il thermos e la rassegnazione. Le strade si interrompono come le promesse elettorali: sempre a metà. I treni viaggiano a passo d’uomo, quando non si fermano del tutto per “guasto alla linea”, e le autostrade sembrano disegnate da un urbanista ubriaco. Ma da Roma ci spiegano che il Ponte sullo Stretto cambierà tutto. È l’Italia dei miracoli: non riusciamo a tappare una buca, ma sogniamo di sfidare lo Stretto di Messina con piloni alti trecento metri.
Ci dicono che sarà l’opera del secolo, il simbolo del riscatto del Sud. Lo stesso Sud dove ogni settimana crolla un viadotto, una galleria si chiude per “lavori urgenti” e i cantieri diventano monumenti all’attesa. Ma in questo Paese basta pronunciare la parola “progresso” per far tacere ogni domanda. Il Ponte serve a questo: a distrarre. È la favola perfetta per un popolo che preferisce l’impossibile all’imbarazzo del possibile.
La Corte dei Conti ha provato a dire che forse, prima di spendere miliardi, sarebbe il caso di capire chi li gestisce e con quali garanzie. Apriti cielo. I sostenitori del Ponte hanno risposto come sempre: chi dubita è un gufo, un traditore del Sud, un “professionista del no”. In realtà, siamo solo professionisti del già visto. Ogni volta che si annuncia un grande cantiere pubblico, qui si accendono due luci: quella della speranza e quella del business. E la seconda, come sempre, acceca la prima.
Perché il Ponte, inutile girarci intorno, è una torta che fa gola. Troppa farina, troppo zucchero, troppa crema per pensare che resti intatta. La mafia non ha più la coppola: oggi partecipa ai bandi, firma le carte e sorride nei consigli d’amministrazione. L’unica impresa che in Sicilia non conosce crisi è quella della gestione del denaro pubblico. Intanto l’isola resta isolata. Ogni frana un confine, ogni deviazione una dogana. I paesi interni sembrano rimasti nel dopoguerra: autobus che non passano, strade che finiscono nel nulla, stazioni dove non arriva più nessuno. Ma guai a dirlo: l’importante è sognare il Ponte, quel prodigio che ci farà attraversare il mare in pochi minuti, per poi perderci per ore tra Scilla e la prima rotonda chiusa.
Il Ponte non unirà nulla. Non la Sicilia alla Calabria, non il Sud al Nord, e nemmeno la politica alla realtà. Unirà, semmai, due tradizioni antiche: quella di annunciare e quella di non finire. Sarà il monumento perfetto all’Italia che costruisce per demolire, che spende per sognare, che promette per sopravvivere.
Forse un giorno lo faranno davvero. Lo inaugureranno con fanfare, ministri, tagli di nastro e prime pietre di seconda mano. E per arrivarci bisognerà prendere la statale, fermarsi a un semaforo lampeggiante, superare una frana e sperare che non piova. Ma a quel punto non importerà più. Perché il Ponte, come tutte le nostre grandi opere, avrà già servito il suo scopo: non collegare due sponde, ma due illusioni.
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