Il Piano casa a Milano è già un flop: una sola area assegnata e il sospetto che qualcosa non funzioni
- Postato il 2 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Elena Comelli *
Doveva essere la risposta del Comune di Milano all’emergenza abitativa e, per quanto criticabile sotto più aspetti (primo fra tutti la scarsa se non nulla attenzione all’edilizia pubblica), il Piano casa dell’allora assessore Guido Bardelli (dimessosi dopo quanto emerso dalle chat intercettate nell’ambito delle inchieste sul Modello Milano) ha sicuramente due meriti:
1. Quello di esistere (erano decenni che il Comune di Milano non metteva in campo un piano casa)
2. Quello di individuare un target di riferimento (lavoratori e lavoratrici con un reddito regolare, ancorché medio basso) invece di parlare genericamente di risposta al bisogno abitativo
O forse oggi è il caso di dire che il piano questi meriti li aveva. Perché il piano, dopo il primo bando, se non è morto, diciamo che quantomeno non gode di ottima salute. Le ambizioni del piano erano quelle di realizzare 10.000 appartamenti in 10 anni per il ceto medio “affitti sostenibili e permanenti di circa 80 euro al metro quadro all’anno (pari a 400 euro al mese per un appartamento di 60 metri quadri), destinati a lavoratrici e lavoratori con redditi compresi tra 1.500 e 2.500 euro mensili”, così si legge sul sito del Comune di Milano (9 ottobre 2025). Dichiarazioni ambiziose, coerenti con la strategia iniziale dell’ex assessore Bardelli. E qui cominciano i però.
Il primo però (quello insito nel piano) è che dei 10.000 appartamenti previsti solo il 65% fosse a canone calmierato e il restante 35% destinato al libero mercato; una quota necessaria a rendere sostenibile l’impegno degli operatori, ai quali comunque il Comune mette a disposizione 300.000 mq di suolo pubblico cedendo il diritto di superficie. Una scelta dettata evidentemente da quello che oggi è il vero elemento trainante del costo dell’abitare nelle grandi città: il valore dei suoli. Eppure, nonostante, la messa a disposizione di suoli pubblici, il primo bando del piano casa è stato un flop: una sola area assegnata per la realizzazione di 33 alloggi. 33 su 10.000! Un segnale chiaro che qualcosa non funziona.
E questo qualcosa lo raccontano proprio gli operatori dell’abitare sociale, quelle cooperative a cui, in prima battuta, il piano era destinato e che, oggi, lamentano l’incertezza dei costi “per bonifiche e oneri di urbanizzazione” e alzano l’asticella spiegando, in modo anche non troppo velato, che quel 35% destinato al libero mercato non basta. Che per rientrare dei costi e garantire affitti accessibili serve almeno il 45%. Una percentuale che ridurrebbe ulteriormente l’offerta di appartamenti accessibili al ceto medio, portandoli dai 10.000 dei titoli dei giornali, ai 6.500 reali del piano fino a 5.500. Che vuol dire dimezzare i numeri e, soprattutto, vuol dire altri 4.500 appartamenti sul libero mercato, un mercato che a Milano non risponde più da tempo alla domanda di casa ma risponde perfettamente agli appetiti degli investitori e dei fondi immobiliari.
E allora non può che nascere spontanea una domanda.
Se a poche decine di km da Milano le case costano anche meno di 2.000 euro al metro quadro (secondo i dati dell’osservatorio di Immobiliare.it, a Legnano, ad esempio, il prezzo medio delle abitazioni è inferiore ai 2.000 euro e sale intorno ai 3.000 euro per il nuovo; a Rho, dove pure arriva la metropolitana, si è poco sopra i 2.000 euro al metro quadro) come è possibile che a Milano, pur abbattendo i costi delle aree, non si riesca a costruire case a prezzi accessibili? La risposta non può che essere una – perché si sa, e chi costruisce lo sa, che a Milano si può guadagnare molto di più.
Il problema sta a monte però, e insieme al problema sta la risposta. Il piano casa di Milano è stato costruito pensando davvero alla domanda abitativa? Alle migliaia di famiglie in lista di attesa per una casa popolare? Alle centinaia di famiglie sfrattate ogni anno nel territorio metropolitano (2000 all’anno, cioè tre al giorno, questi i dati ufficiali degli sfratti)? Ai troppi lavoratori e lavoratrici che, con stipendi troppo bassi e contratti precari non hanno la possibilità di fornire le garanzie richieste per un affitto, men che meno per un mutuo? O, piuttosto, è stato costruito pensando a come remunerare il capitale degli investitori e a garantire i costruttori, fosse pure quel privato sociale a cui la città ha chiesto di dare una mano per affrontare la crisi abitativa?
A vedere come sta andando sembra che la risposta giusta sia la seconda, e forse è proprio per questo che il piano casa non sta funzionando. Perché se dichiari che stai facendo una cosa per i lavoratori, è dalla loro condizione economica e materiale che devi partire, non dalle esigenze (che pur legittime non possono essere prevalenti) di chi è chiamato a dare una mano.
Ha ragione il mondo cooperativo quando, commentando l’esito del primo bando, ha chiesto un ruolo da protagonista della politica. A chi oggi guida la città l’onere della risposta.
* attivista milanese per il diritto all’abitare e le sue connessioni con il diritto alla città
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