A cosa serve l’Ai se non ci restituisce tempo? Serve una nuova idea di progresso

  • Postato il 1 novembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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di Massimo Selmi

Da due secoli inseguiamo la stessa speranza: che ogni nuova macchina ci faccia lavorare di meno. Doveva essere così con i telai meccanici, con le catene di montaggio, con i robot industriali e infine con i computer da ufficio. Ogni volta la stessa promessa, e ogni volta lo stesso esito: più produttività e più profitti per le aziende, e meno tempo libero per il lavoratore.

Ora quella promessa torna, più seducente e più pericolosa che mai, nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. L’AI viene presentata come il culmine del progresso: la fine della fatica, la liberazione dall’errore, la possibilità di concentrarsi su ciò che conta davvero. Ma mentre la tecnologia corre, il calendario della nostra vita resta immobile: nella migliore delle ipotesi otto ore al giorno, cinque giorni a settimana, come nell’Ottocento. Molto più spesso, dieci ore al giorno, il weekend e le ferie con smartphone e tablet sempre attivi. E la storia insegna che ogni volta che il lavoro umano è stato reso più efficiente, l’uomo non ha lavorato meno: ha solo lavorato diversamente, e spesso di più.

È come se la tecnologia, invece di restituirci tempo, avesse sempre trovato un modo per reclamarlo di nuovo. La vera rivoluzione non è mai avvenuta nelle fabbriche o nei laboratori, ma nel modo in cui una società decide di distribuire i frutti del proprio progresso. Perché il punto non è quante cose possiamo produrre, ma quanto tempo possiamo restituire a chi le produce. L’intelligenza artificiale sposta l’asticella ancora più in alto: può sostituire non solo le mani, ma anche la mente. Può scrivere testi, elaborare strategie, interpretare dati, consigliare investimenti.

E a questo punto la domanda diventa inevitabile: se un algoritmo può fare in un’ora ciò che prima richiedeva un giorno, perché continuiamo a lavorare otto ore al giorno? La risposta non è tecnica, ma è politica, nel senso più alto del termine. Perché non è la macchina a decidere come usare la propria potenza: siamo noi. E se lasciamo che il vantaggio resti concentrato dove si accumula il capitale, la tecnologia diventa un acceleratore di disuguaglianza. La produttività si incrementa, ma la giornata del lavoratore resta uguale; gli utili crescono, ma il tempo si restringe. Senza interventi legislativi a livello globale, cresceranno solo gli utili per pochi, e la disoccupazione per tanti.

Ma in fondo, non è l’AI a togliere lavoro: siamo noi a non sapere come usarla per restituirci vita. Servirebbe una nuova idea di progresso: un patto sociale che riconosca il diritto al tempo come estensione del diritto al lavoro. Un’ora risparmiata grazie all’AI non dovrebbe sparire nei bilanci, ma trasformarsi in un’ora di libertà, di cura, di studio, di comunità. Ma per farlo serve anche un cambiamento più profondo, culturale: smettere di identificarci solo con ciò che facciamo. Non siamo la nostra professione, il nostro badge o la nostra scrivania.
Siamo ciò che resta quando smettiamo di lavorare, e se il futuro dell’AI non ci restituisce quel tempo, allora non ci sarà progresso per l’uomo. I nostri figli non ci giudicheranno per ciò che avremo inventato, ma per come avremo scelto di usarlo.

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Il Fatto Quotidiano

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