Discriminazione organizzativa: quando l’orario di lavoro diventa un ostacolo alla parità

  • Postato il 29 ottobre 2025
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di Loredana Piscitelli *

Nel cuore del distretto logistico dell’Emilia-Romagna, dove la precarietà strutturale incontra le più ambiziose retoriche sull’efficienza e la produttività, si è consumata una delle vicende giudiziarie più emblematiche in tema di discriminazione organizzativa. A raccontarla è il decreto del Tribunale di Bologna del 31 dicembre 2021, emesso su istanza dell’Ufficio delle Consigliere di Parità e recentemente confermato dalla Corte d’Appello, che ha cristallizzato un principio fondamentale: la riorganizzazione del lavoro non può calpestare diritti fondamentali, specie quelli delle lavoratrici madri.

La vicenda ha inizio nel settore della logistica, teatro di fenomeni opachi come la “transumanza di dipendenti” – un sistema che prevede il passaggio ciclico di lavoratori tra società filtro, spesso connotate da irregolarità strutturali, che ogni due anni chiudono e trasferiscono il personale ad altre imprese. È in questo contesto che, nel 2021, alcune lavoratrici della società che chiameremo Zeta si sono rivolte al sindacato SI Cobas e all’Ufficio delle Consigliere di Parità, denunciando l’introduzione, da parte dell’azienda subentrante, di un doppio turno di lavoro (5:30–14:00 e 14:30–22:30) in luogo del precedente orario centrale (8:30–17:00). Un cambio radicale annunciato senza mezzi termini: o si accetta o si rinuncia al passaggio, prendendo la disoccupazione.

Il nuovo orario colpiva in particolare le lavoratrici con figli piccoli e senza rete familiare di supporto. Alcune si dimisero immediatamente. Altre, pur rimanendo, dovettero affrontare gravi difficoltà nella conciliazione tra lavoro e cura, con ripercussioni anche sulla salute e sul benessere dei figli. Né scioperi, né mediazioni riuscirono a indurre l’azienda a rivedere la sua posizione. Da qui l’azione giudiziaria ex art. 37 del Codice delle Pari Opportunità, volta a far dichiarare la natura discriminatoria di una misura organizzativa apparentemente neutra ma dagli effetti profondamente iniqui, come emerge in maniera lampante nelle testimonianze riportate nei passaggi del provvedimento emesso dal Giudice del lavoro.

In particolare il Tribunale di Bologna ha accolto integralmente le argomentazioni dell’Ufficio ricorrente, sancendo che l’imposizione indiscriminata del doppio turno concretizzava una discriminazione indiretta a danno delle lavoratrici madri. Non solo: il Giudice ha chiarito che il provvedimento organizzativo, oltre a svantaggiare concretamente le lavoratrici, risultava sproporzionato rispetto all’obiettivo dichiarato – ossia ottimizzare gli spazi aziendali – poiché non era stato provato che fosse necessario coinvolgere l’intera forza lavoro nel nuovo schema orario.

Ordinata la cessazione della condotta discriminatoria, il Tribunale ha imposto a Zeta la predisposizione di un piano di rimozione degli effetti dannosi e il reinserimento delle lavoratrici madri con figli minori di 12 anni nel turno centrale, entro tre mesi. Ma la battaglia legale non si è fermata lì. Dopo l’assunzione di tutto il personale da parte della società che chiameremo Alfa – la quale nel frattempo aveva siglato un accordo sindacale di internalizzazione in seguito a un procedimento per amministrazione giudiziaria a Milano – Zeta si è opposta al decreto, chiedendo e ottenendone la revoca per cessazione della materia del contendere.

La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 17 settembre 2025, ha però affermato che il decreto non doveva essere revocato, affermando che la rinuncia all’opposizione da parte di Zeta rendeva definitivo il decreto emesso nel 2021. Ma soprattutto, la Corte ha riconosciuto la natura “anticipatoria” della tutela offerta dalla procedura antidiscriminatoria: non un semplice provvedimento cautelare, ma un vero titolo giudiziario efficace, idoneo a produrre effetti anche in caso di successivo mutamento delle condizioni fattuali.

La discriminazione, qui, non nasceva da insulti o esclusioni esplicite, ma da un’organizzazione del lavoro incapace di riconoscere la differenza e garantire l’equità. È proprio questo il cuore della discriminazione organizzativa: trattare tutti allo stesso modo quando non lo sono, applicare regole uguali che producono effetti ineguali. Il diritto del lavoro, aggiornato da questa giurisprudenza, non chiede più solo pari opportunità in teoria, ma chiede di valutare l’impatto concreto delle scelte aziendali sulla vita reale delle persone.

Questa vicenda, pur incastonata in una cornice logistica ben nota per le sue distorsioni, ha valore universale: sollecita imprese, sindacati e giudici a interrogarsi su cosa significhi davvero lavorare in condizioni eque. Il principio affermato dal Tribunale di Bologna, e ora difeso in Appello, si candida così a diventare un faro nella lotta contro le nuove e meno visibili forme di discriminazione che si nascondono sotto il vestito neutro dell’organizzazione.

* Avvocata in Bologna

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