Il genocidio di Srebrenica è ancora una ferita aperta nel cuore dell’Europa

  • Postato il 11 luglio 2025
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Da un anno, l’Onu ha proclamato l’11 luglio Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica. Si tratta della più grave strage compiuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’eccidio avviene tra il 6 e il 25 luglio 1995 ed è compiuto dai serbo-bosniaci guidati dal generale Ratko Mladić, coadiuvati dalle milizie paramilitari di Željko Ražnatović più noto come la tigre Arkan. Le vittime sono gli uomini bosniaci mussulmani di Srebrenica, piccola località collinare distante circa 16 chilometri dal confine serbo.

In quei giorni sono uccisi a sangue freddo 8.372 uomini e ragazzi; tra questi ultimi, circa 500 non hanno ancora 18 anni. Sono persone inermi che compongono una lunga colonna di uomini in fuga dal paese attraverso i boschi nel tentativo di raggiungere Tuzla, la terza città della Bosnia controllata dai bosgnacchi, i bosniaci mussulmani.

Sono i giorni della guerra di Bosnia, parte di un conflitto etnico che dilania la federazione della ex Jugoslavia dopo che, nel 1991, sloveni e croati hanno annunciato la loro secessione. Soltanto tra il 1992 e il 1993, quando è acceso anche lo scontro tra serbi e croati, si contano 105.000 morti. È una guerra che si combatte palmo a palmo. Ciascuno dei tre contendenti (serbi, croati e bosgnacchi) puntano a creare aree “etnicamente omogenee” cacciando dalle loro case (nella meno sciagurata delle evenienze) i gruppi etnici minoritari.

Si combatte con le armi, ma anche lo stupro di massa diventa un mezzo per costringere la popolazione minoritaria ad andarsene. La Bosnia in particolare subisce un esodo di massa: 2.200.000 sfollati. Una cifra immensa, esattamente la metà della popolazione del tempo.

La Bosnia Erzegovina, a differenza delle altre repubbliche della ex Jugoslavia, è il territorio culturalmente più articolato con la presenza di serbi, croati e bosgnacchi e veniva considerata, come titolo di merito, la più jugoslava delle repubbliche. La sua capitale, Sarajevo, ha alle spalle una tradizione di convivenza e tolleranza tra genti e religioni diverse, ma è costretta a subire – da parte delle truppe serbo-bosniache di Mladić – un assedio di 4 anni in penuria d’acqua, cibo ed elettricità e con i civili bersagli dei serbi appostati nelle colline intorno alla città.

I ponti, che in senso materiale e metaforico hanno unito popolazioni diverse, sono distrutti dalla furia dei nazionalismi. Lo scrittore bosniaco Ivo Andrić (Nobel nel 1961) nel suo capolavoro, Il ponte sulla Drina apparso nel 1945, racconta, in uno stile quasi epico, la storia secolare di un ponte voluto, sabotato, ricostruito, luogo di incontro: un metaforico simbolo della Jugoslavia. Ma la guerra i ponti li distrugge. Lo Stari Most, il vecchio ponte ottomano di Mostar, in Bosnia, è abbattuto dalle milizie croate nel novembre del 1993 per separare la parte croata e la parte mussulmana della città.

In una guerra caratterizzata dalla pulizia etnica, Srebrenica diventa una zona ad alto rischio essendo un’enclave mussulmana in area serba, quindi un individuabile obiettivo bellico. La località è proclamata zona protetta dall’Onu che provvede a inviare un contingente olandese, il “Dutchbat”, insediatosi in una vecchia fabbrica di batterie a circa 5 chilometri dalla città. Nonostante la presenza della guarnigione delle Nazioni unite, le truppe di Mladić violano lo stato di zona sicura e arrivano a Srebrenica fra il panico della popolazione. Donne e bambini in cerca di riparo si affollano davanti alla fabbrica. Il tenente colonnello Thom Karremans, comandante dei caschi blu olandesi, aveva inutilmente chiesto l’intervento degli aerei Nato. Di fronte alle truppe serbo-bosniache, i soldati dell’Onu decidono però di non contrapporsi rinunciando alla difesa del paese. In una situazione senza uscita, il carnefice Mladić “garantisce” l’incolumità della popolazione: donne e bambini sono trasferiti da Srebrenica in pullman, a volte anche con l’aiuto delle stesse forze di pace. A questo punto comincia la caccia agli uomini, nel compimento dell’intento sterminatore.

Nel dicembre 1992 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, prendendo in esame un caso della guerra nella ex Jugoslavia, ha affermato, con la risoluzione 47/121, che la “pulizia etnica” (termine che entra nel vocabolario internazionale proprio nel 1992) è una forma di genocidio. I principali responsabili politici e militari di questa strage, Radovan Karadžić e Ratko Mladić, sono stati condannati all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia, per genocidio e crimini contro l’umanità.

Come Auschwitz, Srebrenica simboleggia il trauma profondo del Novecento europeo. Il Memoriale di Srebrenica-Potočari accoglie ancora le sepolture dei corpi che vengono ritrovati nei terreni circostanti.

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Il Fatto Quotidiano

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