I numeri sulla povertà svelano l’inganno: dietro i record celebrati, una precisa politica di esclusione

  • Postato il 19 ottobre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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È il paradosso di un’Italia sospesa tra la retorica della ripresa e la realtà di un malessere che rifiuta di recedere, i dati Istat sulla povertà assoluta nel 2024 dipingono un quadro di inquietante stasi: 5,74 milioni di individui, il 9,8 per cento dei residenti, e 2,22 milioni di famiglie intrappolati in una condizione di indigenza. Una cifra che rispetto al 2023 tradisce non un successo delle politiche pubbliche, ma piuttosto il loro fallimento strutturale. La povertà, dopo gli shock della pandemia e dell’inflazione, non arretra; si fossilizza, diventando un tratto permanente del paesaggio sociale italiano. È la cronicizzazione di un male che l’andamento positivo del Pil, seppur modesto, e il lieve aumento dell’occupazione non riescono a scalfire, segno che i frutti della crescita, ammesso che vi siano, non vengono redistribuiti, ma concentrati in mani sempre più esigue.

Questa stabilità nazionale, tuttavia, nasconde profonde e drammatiche trasformazioni geografiche. Il Mezzogiorno rimane l’area con l’incidenza più alta, al 12,5 per cento, ma è il Nord a registrare la metamorfosi più significativa nel decennio. In dieci anni, il numero dei poveri assoluti al Nord è esploso, aumentando di quasi un milione di persone, il doppio rispetto al Sud. È il segno di un modello di sviluppo che, anche nelle sue roccaforti storiche, sta mostrando crepe profonde, generando un nuovo esercito di indigenti nelle regioni una volta considerate il motore del Paese. Le Isole, dal canto loro, sprofondano con un’impennata statisticamente significativa, passando dall’11,9 al 13,4 per cento, un dato che racconta di periferie estreme sempre più abbandonate a se stesse.

A rendere questa povertà particolarmente virulenta è la sua capacità di auto-riprodursi, di tramandarsi di generazione in generazione. I minori sono le vittime designate di questo sistema perverso: 1,28 milioni di under 18 vivono in povertà assoluta, una cifra che rappresenta il valore più alto dall’inizio delle serie storiche e si traduce in un’allarmante incidenza del 13,8 per cento. Lo studio dell’Università di Oxford conferma questo meccanismo di eredità del disagio: chi cresce in una famiglia povera ha una probabilità più alta di 15 punti percentuali di rimanere povero da adulto. La povertà non è più un incidente di percorso, ma un destino che si consolida nell’infanzia, un’ipoteca sul futuro che vanifica qualsiasi retorica sulla mobilità sociale e sulle pari opportunità.

Il volto più crudo e spietato di questa indigenza strutturale è quello segnato dalla cittadinanza. Si consuma qui un vero e proprio apartheid economico: le famiglie composte esclusivamente da stranieri hanno un’incidenza di povertà assoluta del 35,2 per cento, un dato che è cinque volte superiore a quello delle famiglie di soli italiani, fermo al 6,2 per cento. Nel Mezzogiorno, questo divario assume toni da emergenza umanitaria, con il 42,5 per cento delle famiglie straniere in povertà. Questi numeri non descrivono solo una disparità, ma l’emergere di due Italie parallele che viaggiano a velocità diverse e con diritti di accesso al benessere radicalmente differenti. Gli stranieri, che sono solo il 9 per cento dei residenti, costituiscono il 31 per cento dei poveri assoluti, un fatto che demolisce qualsiasi narrazione sull’integrazione e rivela come il nostro sistema sia costruito per generare e tollerare disuguaglianze sistemiche.

Crolla, in questo scenario, anche il mito fondativo delle società occidentali: quello del lavoro che redime e che garantisce un’esistenza dignitosa. L’8,7 per cento delle famiglie in cui la persona di riferimento è un lavoratore dipendente vive in povertà assoluta; una percentuale che sale al 15,6 per cento, quasi un operaio su sei, se si considerano gli operai e le figure assimilate. Sono i working poor, un esercito silenzioso di persone che, pur avendo un’occupazione, non guadagnano abbastanza per sfuggire alla morsa dell’indigenza. Questo dato svela l’inganno di un dibattito pubblico che celebra i record occupazionali senza interrogarsi sulla qualità di quel lavoro, sui salari, sulla sua capacità di garantire una vita al di sopra della soglia di sopravvivenza. All’estremo opposto, i disoccupati in cerca di lavoro toccano un picco del 21,3 per cento, lasciati in una condizione di disperazione senza via d’uscita.

Tra i molti fattori che alimentano questa macchina della povertà, l’abitazione gioca un ruolo decisivo. La trappola dell’affitto si rivela in tutta la sua crudele efficacia: l’incidenza della povertà assoluta tra gli affittuari è del 22,1 per cento, contro un rassicurante 4,7 per cento tra i proprietari di casa. Quando in una famiglia in affitto sono presenti dei minori, la situazione diventa drammatica, con il tasso che esplode al 32,3 per cento. In un Paese che ha progressivamente smantellato il proprio patrimonio di edilizia sociale e ha abdicato a qualsiasi politica abitativa pubblica, la casa diventa il moltiplicatore finale della disuguaglianza, il lusso più grande, il sogno che condanna alla povertà chi non può realizzarlo.

Al di là delle retoriche di governo e delle opposizioni, questi numeri consegnano un verdetto inappellabile sul modello di sviluppo italiano. L’abolizione del reddito di cittadinanza e la sua sostituzione con l’Assegno di Inclusione, strumento frammentario e dalla platea più ristretta, si sono rivelate per quello che sono: non una riforma, ma una resa. Una scelta politica precisa di abbandonare intere fasce della popolazione al loro destino, di accettare la povertà come un dato fisiologico e non come una piaga da estirpare. La stabilità statistica della povertà non è un segno di resilienza, ma la prova di un sistema economico e sociale che ha smarrito il suo senso civile, che produce ricchezza senza distribuirla, che crea lavoratori ma non redditi, che celebra la famiglia ma la penalizza quando è numerosa.

È l’immagine di un Paese che, rifiutandosi di affrontare le cause strutturali del disagio – i divari territoriali, la precarietà del lavoro, l’istruzione, il carico familiare –, ha scelto di normalizzare l’esclusione, consegnando al futuro un’esercito di poveri cronici.

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Il Fatto Quotidiano

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