Ho visto la serie Olympo e anche la frase “lo sport fa bene” mi è sembrata un’illusione
- Postato il 20 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Marco Pozzi
Nella serie Netflix Olympo è difficile stimare con buona approssimazione quanto sia documentario e quanto finzione. E non in relazione alla Spagna in particolare, quanto a un contesto che probabilmente, con modalità diverse, potrebbe verificarsi in qualunque paese dei cinque continenti con istituzioni sportive calibrate all’eccellenza olimpica globale, e probabilmente per molti altri sport oltre all’atletica e al nuoto sincronizzato. I tratti dei personaggi saranno calcati dalla produzione per ottenere una serie avvincente ed estrema, per appassionare con attori gli utenti come atleti fanno verso i tifosi durante le competizioni. Ma qualcosa d’estremo, chiunque abbia fatto sport ad a livello agonistico, non necessariamente altissimi, sa che c’è, e alcuni meccanismi psicologici che Olympo porta all’eccesso, con filtri e controlli, con sfumature e personalismi, sono ben presenti nella realtà, fin dentro quel concime interiore sul quale gli atleti accrescono la motivazione ad allenarsi allo stremo e dedicarsi nel profondo a gesti che a molto appaiono un mero gioco.
E non è soltanto il doping, quanto quella vita estrema e radicale, monastica nella sua essenza di ritiro dal mondo, a cui gli sportivi si sottopongono, nelle varie discipline, per una coppa o una medaglia, per il riconoscimento, per l’autostima, più della gloria, che forse appare più fulgida a tifosi e professionisti, che dall’esterno misurano gli eventi con le statistiche e gli almanacchi.
Persino il concetto popolare che “lo sport fa bene” è un’illusione. Fa bene se comanda il corpo, se si è liberi di assecondarlo, appunto per il suo benessere. Ma nell’agonismo, quando il corpo non è in forma, se c’è un dolore, lo si forza a guarire; se c’è dolore prima di una gara importante, ci si fa un’iniezione d’antidolorifico e si va in campo. E basta ascoltare un po’ in giro quanto, in sfumature varie, avvenga nei settori giovanili, spremendo il più possibile l’atleta finché è giovane ed è di proprietà, compromettendo magari il suo futuro, accelerando il recupero da un infortunio o forzando il carico di lavoro per raggiungere al bisogno l’apice della forma.
Attrazione e repulsione, similitudine e differenza, competizione e cooperazione, singolo e squadra, odio e amore… tutto si mescola nello sport e nella vita, dall’uno all’altra, dall’altra all’uno, in un’esistenza cosmica che s’accorcia e s’allunga intorno a un cronometro.
Negli atleti di Olympo non traspare amore per lo sport: nessun discorso sul piacere di “fare sport”; anzi, è la parola “gabbia” ad emergere in certi dialoghi di personaggi, e anche i comportamenti rispecchiano un’istituzione totale degna di Asylum piuttosto che un centro per il miglioramento individuale. Più Goffman che De Coubertin.
In questa impostazione s’inquadra il doping, che è conseguenza logica e naturale della fede nella tecnica come mezzo per ottenere un fine. Tempo fa ho assistito a una discussione in cui una persona sosteneva che il doping non esiste. “Perché mettere dei limiti alle prestazioni?”, diceva. “Se possiamo correre i 100 metri in 8 secondi e mezzo, facciamolo. Anche se ti devi fare un’iniezione ai blocchi di partenza, una siringata di adrenalina direttamente nel cuore. La gente mica si lamenterebbe se potesse vedere una gara tanto eccezionale”. Voleva liberalizzare, rendere “i laboratori per il doping a disposizione di tutti, un servizio pubblico agli sportivi”.
Era un discorso un po’ delirante, che portava all’eccesso la convinzione che la tecnologia e la scienza servano per amplificare le possibilità dell’essere umano, che dunque bisognasse cogliere ogni possibilità: il doping come atto di libertà, persino come atto politico.
D’altronde, già nell’antica Grecia si usavano decotti e preparati a base di piante e funghi dalle proprietà “particolari” per aumentare la resistenza. I Romani utilizzavano differenti tipologie di carni, a seconda della disciplina, quali sostanze stimolanti. I guerrieri della mitologia nordica ricorrevano a decotti preparati con un fungo alcaloide; in America del Sud erano diffuse miscele a base di coca, matè e guaranà, mentre in America del Nord funzionava il peyote, una pianta succulenta contenente la mescalina, sostanza psicotropa stupefacente; in Africa si usava una miscela con foglie di cola e alcol.
E dunque, perché dovremmo esserne indenni noi, qualche millennio dopo, che nella capacità di risolvere ogni problema con la tecnica/tecnologia tanto confidiamo?
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