Giustizia climatica in Italia: per la Cassazione chi inquina (e fa violare i target) va davanti al giudice. Pure Eni
- Postato il 22 luglio 2025
- Ambiente
- Di Il Fatto Quotidiano
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“La giurisdizione spetta all’Autorità giudiziaria italiana”, il giudizio “dovrà proseguire” davanti al Tribunale di Roma. Con queste parole, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno dato ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini che nei mesi scorsi avevano fatto ricorso alla Suprema Corte, chiedendo se in Italia fosse possibile o meno avere giustizia climatica. La Cassazione non lascia spazio a dubbi: chi inquina contribuendo alla crisi climatica può essere processato anche in Italia. Il ricorso è nato nell’ambito del procedimento civile ‘La giusta causa’ con cui, a maggio 2023, Greenpeace, ReCommon e i 12 cittadine e cittadini italiani avevano presentato la causa civile nei confronti di Eni, Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e Ministero dell’Economia e delle Finanze (in qualità di azionisti che esercitano un’influenza dominante sulla compagnia) per “i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non derivanti dai cambiamenti climatici a cui il colosso italiano del gas e del petrolio ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone pienamente consapevole”. Tra le richieste delle ong, “l’accertamento dell’inottemperanza dell’Eni, del Mef e della Cassa Depositi e Prestiti al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionalmente riconosciuti” per garantire il contenimento dell’aumento della temperatura entro 1,5°. Ma anche la conseguente dichiarazione “della responsabilità solidale” per tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali “subìti e subendi dagli attori in conseguenza del cambiamento climatico”, per violazione del combinato disposto degli articolo 2 e 8 della Cedu e degli articoli 2043, 2050 e 2051 del codice civile e la condanna di Eni a limitare il volume annuo aggregato di tutte le emissioni di in atmosfera”.
La sospensione del procedimento ordinario e il ricorso – Eni e le altre parti chiamate in causa avevano eccepito il “difetto di giurisdizione del giudice ordinario adito” ritenendo impossibile che in Italia una causa climatica potesse essere portata dinanzi ad un giudice ordinario. Se per l’azienda si tratta di “un’azione legale totalmente infondata”, su cui nessun giudice avrebbe potuto pronunciarsi, ong e cittadini coinvolti hanno però chiesto che fosse la stessa Cassazione a dichiarare se il giudice ordinario italiano abbia o meno questa competenza. Da qui, l’istanza di sospensione presentata dalle ong, perché prescritta dal codice di procedura civile in questi casi. È passato un anno da quando, poi, il 17 luglio 2024, la seconda sezione civile del Tribunale ordinario di Roma ha deciso di rinviare la decisione sulla procedibilità del processo civile alla Corte di Cassazione. Ora la decisione della Cassazione. “Questa sentenza storica dice chiaramente che anche in Italia si può avere giustizia climatica” commentano Greenpeace Italia e ReCommon. “Nessuno, nemmeno un colosso come Eni – aggiungono – può più sottrarsi alle proprie responsabilità. I giudici potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni”.
Il verdetto della Cassazione – Nella sentenza, la Cassazione ricostruisce i fatti e le ragioni del giudizio intentato nei confronti di Eni e dei suoi azionisti Cassa Depositi e Prestiti e Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo la Cassazione “l’ammissibilità del regolamento di giurisdizione non può essere esclusa” perché l’iniziativa è stata assunta dalle stesse ong che hanno promosso il giudizio di merito “dovendosi ritenere configurabile, anche in tal caso, un interesse concreto ed attuale alla risoluzione della questione”. Di più: “A maggior ragione” è giustificata in questo caso “in considerazione della novità delle questioni (inerenti non solo alla giurisdizione, ma anche al merito) suscitate dalla domanda proposta dagli attori”. Perché, ricordano i giudici, “non si riscontrano precedenti nella giurisprudenza di legittimità” sull’oggetto della “domanda proposta dinanzi al Tribunale di Roma”. Il responso della Suprema Corte sancisce che i giudici italiani si possono pronunciare sui danni derivanti dal cambiamento climatico sulla scorta tanto della normativa nazionale, quanto delle normative sovranazionali “e che, dunque – sottolineano le ong – le cause climatiche nel nostro Paese sono lecite e ammissibili anche in termini di condanna delle aziende fossili a limitare i volumi delle emissioni climalteranti in atmosfera”. La Cassazione ribadisce anche che un contenzioso climatico come quello intentato da Greenpeace Italia e ReCommon non è affatto un’invasione nelle competenze politiche del legislatore o delle aziende, quali Eni. Le Sezioni Unite, inoltre, chiariscono che i giudici italiani sono competenti anche in relazione alle emissioni climalteranti emesse dalle società di Eni presenti in Stati esteri, sia perché i danni sono stati provocati in Italia, sia perché le decisioni strategiche sono state assunte dalla società capogruppo che ha sede in Italia.
Il ruolo del Mef e della Cassa Depositi e Prestiti – I giudici giungono alla conclusione che la causa civile vada portata davanti al tribunale ordinario anche per quel che riguarda Mef e Cassa Depositi e Prestiti, anche perché – rispetto a quanto accaduto in altri casi – “nel giudizio di merito tanto il Ministero quanto la Cassa sono stati convenuti non già nella veste di amministrazioni pubbliche, responsabili della mancata adozione dei provvedimenti di rispettiva competenza necessari per il conseguimento degli obiettivi climatici fissati dalle fonti indicate”. Le ong, infatti, hanno chiamato in caso anche Mef e Cassa Depositi e Prestiti in qualità “di azionisti di riferimento dell’Eni” cui viene addebitato un omesso o inadeguato esercizio delle facoltà loro spettanti in qualità di soci, al fine d’indirizzare l’attività della società partecipata verso il rispetto dei predetti obiettivi”. Secondo la Cassazione, lo specifico riferimento agli articoli del codice civile 2043, 2050, 2051 e 2058 “rende evidente” che i ricorrenti hanno voluto far valere una responsabilità extracontrattuale “dei convenuti per i danni cagionati dall’inottemperanza dell’Eni” al dovere di adottare le misure necessarie per ridurre le emissioni di anidride carbonica in atmosfera e consentire il raggiungimento dei target fissati dagli accordi internazionali. Primo fra tutti, l’Accordo di Parigi, ritenuto vincolante anche nei confronti dei privati. In sostanza, “la fattispecie in esame si configura come una comune azione risarcitoria, fondata sull’allegazione di un danno” ossia la lesione del diritto alla vita ed al rispetto della vita privata e famigliare.
Le reazioni e l’impatto della sentenza – Secondo le ong, il verdetto avrà impatto su tutte le cause climatiche in corso o future in Italia rafforzando la protezione dei diritti umani legati alla crisi climatica, già riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti Umani. “Non solo potrà essere decisa nel merito questa causa, perché sia imposto alla società di rispettare l’Accordo di Parigi – commentano – ma la decisione indica la strada per tutte le future azioni giudiziarie nel nostro Paese”. Questa pronuncia si inserisce nel quadro delle più importanti decisioni giudiziarie europee ed internazionali di climate change litigation a cui pure fa riferimento la sentenza. E va nella stessa direzione sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani a favore delle “Anziane svizzere per il clima”, che avevano citato lo Stato svizzero per la sua inadempienza nella lotta ai cambiamenti climatici . La sentenza che ha stabilito, in assoluto, un importante precedente per il riconoscimento del diritto alla giustizia in casi di lesione dei diritti umani fondamentali legati all’emergenza climatica. Diverso l’esito della sentenza simbolo olandese: a fine 2024, infatti, l’azienda petrolifera Shell ha vinto in appello contro l’organizzazione ambientalista Milieudefensie, costola olandese di Friends of the Earth. Ribaltata, in quel caso, la sentenza di primo grado del 2021, con cui il gigante del petrolio era stato condannato a tagliare drasticamente le emissioni di CO2.
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