Giulia Cecchettin, Il padre Gino: “È dura”. Cinque associazioni contro la violenza chiedono la costituzione di parte civile

“È dura, molto dura…”. Gino Cecchettin ha atteso con pazienza l’inizio del processo per la morte della figlia Giulia, assassinata da Filippo Turetta nemmeno un anno fa nel Veneziano. “I miei figli Elena e Davide non ci sono, sono andati a scuola”. All’esterno dell’aula, al piano terra del palazzo di giustizia di Venezia, sede di un procedimento per omicidio volontario premeditato, è una bolgia di giornalisti. Dentro ci sono solo giudici, avvocati e poco pubblico. Le riprese sono garantite dalla Rai. Il processo Turetta è già un evento mediatico, rappresentazione di quanto questa vicenda abbia colpito l’opinione pubblica, trasformando Giulia nel simbolo delle vittime delle violenze di genere. Ed è questo il crinale impervio su cui devono incamminarsi i giudici e i legali.

Siamo di fronte a un processo a una persona o a un fenomeno? Bastano le prime battute per capire che, al di là della quantificazione della pena a carico di Turetta, è proprio la violenza sulle donne il tema che ha fatto irruzione in aula. Il procuratore della Repubblica Bruno Cherchi, non a caso, commenta: “Il processo deve accertare la responsabilità personale, i processi non si fanno ai fenomeni sociali. Questo dibattimento non è contro il femminicidio, ma riguarda un singolo soggetto. Se si sposta questo quadro, si dimentica la funzione vera del processo, che non è quella di fare uno studio sociologico”. Il procuratore ricorda qual è stata la linea seguita in questi mesi dell’inchiesta cominciata l’11 novembre 2023 quando Giulia e Filippo scomparvero.

Il corpo di lei fu trovato in un bosco in provincia di Pordenone, il coetaneo ventiduenne, che l’ha uccisa per un amore malato, fu arrestato una settimana dopo in Germania, nell’auto rimasta a secco di benzina. “Fin dall’inizio ci siamo trovati di fronte a un fatto di enorme gravità che ha colpito in modo profondo l’opinione pubblica – continua Cherchi – eppure abbiamo sostenuto che i processi si fanno agli imputati”. Come commenta il fatto che non si sia presentato, preferendo rimanere in carcere? “Ogni imputato decide il proprio comportamento, mi auguro che non abbia deciso di rimanere in cella a causa della pressione mediatica, in questo caso sarebbe grave perché una persona ha diritto di difendersi in aula”.

Sono ben cinque le associazioni che si occupano di violenza sulle donne che hanno chiesto di costituirsi parte civile. Il presidente Stefano Manduzio si è riservato una decisione, entrando in camera di consiglio per esaminare i documenti depositati a sostegno delle richieste. C’è Innanzitutto l’associazione Penelope che si occupa da anni di cercare persona scomparse. Hanno chiesto di costituirsi anche l’associazione Unione Donne Italiane, I care we care, Differenza Donna e “Insieme a Marianna”. Ognuna di loro interpreta un modo di attivare la riflessione e l‘impegno sulla violenza di genere. “Insieme a Marianna” si ispira alla tragica storia di Marianna Manduca che fu assassinata a Catania nel 2007 dall’ex marito alla vigilia dell’udienza di separazione. Lo Stato italiano fu come stato condannato a risarcire i figli perché 12 denunce erano state presentate invano per ottenere provvedimenti a tutela di una donna condannata a morte. “I care, we care” di Cremona si occupa di informazione e sensibilizzazione pubblica. L’associazione Udi è attiva da settant’anni a tutela delle donne, per la loro autodeterminazione e autonomia. “Differenza donna” attraverso il numero 1522 ha raccolto in Veneto centinaia di denunce di persone che si sentono minacciate.

Di fronte a queste richieste, l’avvocato Giovanni Caruso, difensore di Turetta, ha replicato: “Non pensavo che ci fosse uno stuolo così nutrito di associazioni che vogliono costituirsi. Sono disorientato di fronte a una sequela sesquipedale di enti. Mi oppongo per tutte, non vedo quali danni immediati e diretti siano stati arrecati a queste organizzazioni. Questo processo è destinato a stabilire quale sia la pena equa di giustizia per Filippo Turetta, non dobbiamo aspettarci di fare un vesssillo per una battaglia culturale contro la violenza di genere”. Si è anche opposto alla costituzione dei due comuni di Fossò e Vigonovo. Nel primo è avvenuto l’omicidio e l’avvocato Stefano Marrone ha spiegato “L’immagine di questa comunità è stata legata all’asfalto bagnato del sangue di Giulia”. Anche Vigonovo, luogo di residenza della giovane, chiede i danni: “Ci hanno dipinti come un Far West delinquenziale”.

In una pausa del processo ha parlato Carla Gatto, nonna paterna di Giulia. “Non so giudicare la decisione di Turetta di non essere presente. Penso però che almeno dovrebbe metterci la faccia, anche se ognuno reagisce come vuole. Noi il dolore ce l’abbiamo dentro. Da tanto, tanto, tanto tempo questa sofferenza ci accompagna anche sé magari non la manifestiamo esteriormente”. Perché Giulia è diventata un simbolo? “Era ragazza buona e sensibile, una persona davvero speciale”.

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Il Fatto Quotidiano

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