Forza lavoro ridotta di un terzo in vent’anni: c’entrano tempi, aspettative e relazioni intergenerazionali

  • Postato il 2 luglio 2025
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di Benedetta Cosmi*

I millennials, ignorati da giovani; la generazione Z, potentissima, si è affacciata al lavoro con salari bassi o inesistenti, e a un certo punto senza uffici, senza contratti, senza colleghi. Aziende senza dipendenti. Nessuna voglia di sacrificare la vita privata per un luogo di lavoro – quando c’è – per una carriera incerta e un compenso sproporzionato (questa la loro fama, perché sono cambiati in parte i rapporti di potere dato il calo demografico).

Venuti su dopo i respinti, i giovani della generazione successiva hanno sviluppato un maggiore distacco, emotivo, fisico, culturale. E ne sono manifestazione le richieste. Distacco come forma di autodifesa, non di disinteresse. Qualcuno ha invidiato la società che vogliono costruire ma la cambiano come possono, ovvero senza l’aiuto del passaggio generazionale. Eppure nella contrattazione sindacale servirebbe ancora il modello dell’umanesimo che portò, nel 1936, alla creazione della prima mensa in Olivetti, aperta anche a figli e pensionati. Certo, adesso meglio ristoranti e pizze gourmet.

Ho richiamato il sogno industriale italiano perché non credo che ciò che oggi si contratta risponda ai bisogni più profondi. Se potessero scegliere, i giovani chiederebbero altro. L’Italia che se ne va lo dimostra. Era il 2003 il primo anno in cui il rientro in patria (dopo esperienze all’estero) è diminuito. Nessuno si preoccupava? Non molto, neppure quando i numeri sono aumentati: 525.000 giovani italiani sono emigrati tra il 2008 e il 2022. Il futuro se ne va.

La partecipazione al mondo del lavoro si è ridotta di un terzo in vent’anni tra gli under 34. È forse sintomo di benessere, ma non è privo di disagio, declino, distorsioni. È un calo di futuri adulti. Un aspetto sociologico interessante è nel rapporto lavoro e origini familiari. A margine del consiglio direttivo di Snfia – Sindacato nazionale delle alte professionalità del mondo assicurativo – abbiamo riflettuto come due modalità d’ingresso nel mondo del lavoro, spesso legate alle opportunità familiari, abbiano portato a strade diverse. C’è chi si butta pur di guadagnare qualcosa; chi può, aspetta un impiego coerente con il proprio titolo di studio legittimamente.

Un mercato con domanda e offerta di qualità saprebbe assorbire questi ultimi, saprebbe avvalersi di entrambi. Il nostro non trova né uno né l’altro. Assurdo e cieco. Perché? Perché in Italia, con poco terziario avanzato, c’è molta precarietà, dunque accade il contrario: pochi lavoratori, insoddisfatti, e annunci deserti. Le aziende, la cui vita media è inferiore a quella dei propri dipendenti, nascono microscopiche: muoiono in un lampo. Si pensi alle insegne che si accendono e si spengono. Molti uffici non riaprono: c’è internet e si taglia su stipendi, affitti, capitale umano.

In un simile panorama, far dipendere la soddisfazione del lavoratore dal luogo di lavoro è quasi impossibile. I dati mostrano che a essa è riservata una parte sempre più risicata. Come dire: “Non mi aspetto granché, appena posso scappo”. Eppure, non era stato così nemmeno in contesti più duri. Perché? C’è troppa offerta fuori per restare o, forse, manca dentro il “senso”, nella frammentazione.

Tempi di lavoro, aspettative e relazioni intergenerazionali. Un elemento cruciale da analizzare è l’evoluzione dei tempi di lavoro e la crescente centralità del work-life balance, tornato al centro nella fase post-pandemica. Da un punto di vista sociologico, emerge un mutamento nella percezione del tempo, del valore attribuito al lavoro e delle aspettative esistenziali nei confronti della propria traiettoria biografica. La pandemia da Covid-19 ha accelerato processi già in atto: da un lato, ha imposto una riorganizzazione dei tempi e degli spazi, con l’introduzione su larga scala del lavoro da remoto; dall’altro, ha stimolato un ripensamento delle priorità personali e professionali, soprattutto tra i più giovani. Non si tratta solo di una riduzione dell’impegno individuale, come potrebbe suggerire la formula quiet quitting, ma di una domanda di ri-equilibrio e riconfigurazione tra lavoro e vita, all’interno di un sistema valoriale che include benessere, autonomia, relazioni sociali e progettualità personale.

Questo cambiamento ha anche una dimensione organizzativa. Le imprese affrontano nuove domande di flessibilità, partecipazione e riconoscimento, devono superare approcci emergenziali o difensivi, nei modelli di lavoro ibrido. Lo smart working non può essere una concessione temporanea come un cibo di cui abbuffarsi prima che termini, ma va progettato come elemento strutturale, con investimenti chiari, strumenti adeguati, momenti di valutazione condivisa. Senza una regia consapevole si rischia l’intensificazione del lavoro e l’isolamento professionale, con effetti negativi sia sulla produttività sia sul benessere.

Ha fatto e può fare male non far incrociare chi porta con sé la storia organizzativa con i giovani lavoratori, forti di nuove competenze e attese – a cui il Paese ha rinunciato per lunghi anni (di crisi). Su che valori vogliamo ripensare in modo partecipativo le modalità di lavoro e le forme di appartenenza deriva da quello sguardo che dà fiducia. Altrimenti vuol dire che abbiamo smesso di chiedere (e dare) qualcosa al lavoro. Molti non hanno mai avuto l’occasione di sperimentare un’organizzazione stabile, un ambiente da abitare ogni giorno. Come in certe relazioni affettive, “l’educazione sentimentale”.

*Corsivista del Corriere della Sera, consiglio direttivo Eurispes, già direttrice dipartimento innovazione della Cisl

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