Dal Cairo inizia la nostra missione verso Rafah: andiamo in Palestina per chiedere di fermare quest’orrore

  • Postato il 16 maggio 2025
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di Marco Grimaldi e Benedetta Scuderi

Ore 3 del mattino del 16 maggio, Il Cairo. Da qui comincia la nostra missione diretta verso i varchi di Rafah, da cui si entra a Gaza. Una delegazione – la più numerosa mai giunta a Rafah – composta da rappresentanti della rete di ong Aoi, Arci, Assopace Palestina, 14 parlamentari, 3 eurodeputati, 13 giornaliste e giornalisti, accademici ed esperte di diritto internazionale.

Siamo partitə serenə e ancor più decisə, dopo numerosi attacchi da parte della destra sugli organi di stampa e una vera e propria ‘caccia ai pro Pal’ sui social. Fino a un corsivo del Foglio in cui io (Marco) sono stato definito antisemita e degno di espulsione dal Parlamento, per aver indossato la kefiah in un gesto simbolico contro l’occupazione, la pulizia etnica e il genocidio perpetuato in Palestina.

Al contrario degli autori di questi attacchi scomposti, che un giorno avranno qualcosa di cui vergognarsi, noi ci sentiamo liberə, liberə di portare quella kefiah e di andare verso la Palestina per chiedere giustizia e dire al mondo che nessuno può essere affamato, umiliato e spazzato via dalla terra.

Il 15 maggio è stato il 77esimo anniversario di quella che i palestinesi chiamano Nakba: l’espulsione forzata – nel 1948 – di oltre 700mila palestinesi dalle terre in cui abitavano. Ancora oggi, a milioni di rifugiati palestinesi viene negato il diritto al ritorno, pur riconosciuto da una risoluzione Onu.

Prima della partenza, abbiamo sollevato il caso di tre studentesse di Gaza che hanno ottenuto una borsa di studio all’Università di Siena, ma sono bloccate dentro la Striscia, poiché i consolati di Gerusalemme e del Cairo negano il rilascio del visto. Mentre i loro coetanei occidentali pianificano Erasmus e sessioni di studio in biblioteca, Shahd, Majd e Zaina lottano per la sopravvivenza quotidiana, senza acqua né elettricità, in un luogo in cui più del 90% delle scuole e delle università è stato distrutto o danneggiato e, dal 7 ottobre, 13.419 studenti e studentesse sono stati uccisi e 21.653 feriti.

Mentre iniziamo i primi incontri con medici e giornalisti palestinesi, dall’alba già 52 persone sono state uccise negli attacchi delle Forze di difesa di Israele sulla Striscia. Leggiamo in diretta che Trump si è accorto che a Gaza la gente muore di fame. Usa questa finta presa di coscienza tardiva per chiamare “soluzione” ciò che sta preparando, insieme a Netanyahu, per la Striscia: una soluzione che ha un sapore “finale”, ovvero “prendere Gaza e farne zona di libertà”. Si chiama pulizia etnica ed è già pienamente in corso, insieme a un vero e proprio genocidio fatto di bombe e negazione degli aiuti. Solo il 15 maggio Israele ha autorizzato l’accesso umanitario a Gaza, per la prima volta dallo scorso marzo, e sono riprese operazioni di evacuazione medica.

Dal 2 marzo la Striscia è completamente sigillata: le vittime per fame, sete e malattie aumentano ogni giorno in modo esponenziale. La tregua annunciata il 19 gennaio 2025 è stata un enorme bluff: già dal 18 marzo sono ripresi bombardamenti pesanti e una nuova offensiva di terra da parte dell’esercito israeliano.

Abbiamo appena incontrato i primi profughi palestinesi, disperati perché non riescono a ottenere notizie dei loro fratelli e delle loro sorelle a Gaza. Sono qui da sei mesi, ma hanno vissuto un anno sotto le bombe. Ci raccontano della completa distruzione delle risorse idriche, delle tubature, dei pozzi. Le bombe e i droni hanno preso di mira uno ad uno ogni pannello solare utile per captare l’acqua dalle fonti. Le tubature che vengono da Israele sono oramai tutte bloccate da un anno.

Ogni persona o infrastruttura capace di lenire la sofferenza della popolazione diventa un target da parte del governo israeliano.

A Gaza la gente beve acqua sporca, attinge alla raccolta delle piogge e alle pozzanghere. C’è chi è così disidratato che ha smesso di parlare o muoversi, per non disperdere liquidi. Ci sono bimbi che si aggirano come spettri.

Abbiamo incontrato i rappresentanti dei giornalisti di Gaza. Ci raccontano di 217 colleghi morti, fra cui 27 donne. Non solo sotto i raid aerei. 400 sono rimasti feriti, molti di questi menomati o con handicap totali. Ogni tre giorni muore un giornalista. 48 si trovano attualmente in prigione da diversi mesi. Secondo l’Onu, vengono privati di ogni diritto affinché non comunichino con l’esterno.

Un giornalista ci racconta la vicenda del suo vicino di casa: un pescatore che si era messo in testa uscire in mare con una barca malmessa, per tentare di portare del cibo ai suoi vicini. La barca è stata abbattuta con un missile, chi ci racconta questa storia non ha avuto nemmeno il tempo di salutare il suo conoscente.

C’è chi ha vissuto per sei mesi barricato in casa, chi l’ha abbandonata un anno fa, chi ha perso tutto, chi ha perso i propri figli o i genitori. Sono qui, ci parlano dal Cairo ma si capisce che hanno tutto a Gaza: gli amori, i familiari, ma soprattutto i pensieri. Ogni respiro è per quella striscia di terra senza voce, acqua, cibo.

Questi giornalisti non hanno mai smesso di fare il loro lavoro. All’inizio non avevano nulla e si riversavano in strada senza protezioni. Poi, hanno provato a procurarsele senza successo, infine hanno cominciato a uscire con elmetti fatti in casa, con strumenti fabbricati a mano: giubbetti di spugna, stracci, pentole con scritto PRESS.

Ora, insieme alle poche Ong sopravvissute a Gaza come Oxfam, Vento di Terra e Acs, stiamo per incontrare gli operatori sanitari che in questi mesi hanno aiutato la popolazione in condizioni estreme. Ci raccontano che, anche quando gli aiuti entravano da quei varchi, era quasi impossibile aiutare tutti e soprattutto curarli.

Sabato, con le prime luci dell’alba, inizierà un viaggio che attraverserà il deserto e le frontiere più sorvegliate del mondo. Centinaia di chilometri, oltre cento checkpoint e temperature che sfiorano i 45 gradi: questo è il percorso necessario per seguire il cammino dei container carichi di aiuti umanitari che, purtroppo, non riescono a raggiungere la Striscia di Gaza. Tra questi container, ci sono anche quelli riempiti grazie alla generosità di tanti e tante, anche fra voi che ci leggete. A pochi chilometri dalla destinazione, tutto si ferma. Il confine di Rafah rimane chiuso, mentre gli aiuti restano bloccati nella città di Al Arish.

Al Arish, situata a soli 50 chilometri da Gaza, un tempo era un rinomato centro turistico, meta di viaggiatori affascinati dalle sue acque cristalline e dalle distese di sabbia dorata. Oggi, invece, è diventata una zona di attesa e speranza, un luogo di transito dove le voci dei volontari e degli operatori umanitari si mescolano a quelle di chi attende una soluzione politica e diplomatica per sbloccare l’accesso agli aiuti.

Il viaggio di sabato non sarà solo un percorso geografico, ma anche un test di determinazione e resilienza. Perché dietro ogni container fermo c’è una storia di necessità e una richiesta urgente di giustizia. Riprenderemo il nostro racconto lunedì, per riportare due giorni intensi, in cui intendiamo visitare i depositi, ma soprattutto aprire quei valichi chiusi a Rafah e vedere Gaza con i nostri occhi. Finiamo con un appello rivolto a tutte le autorità civili, militari e religiose: aiutateci a fermare questo orrore. Aiutateci ad aprire quei varchi.

Foto in evidenza: La strada che porta verso Rafah – Daniele Napolitano/Orient XXI Italia

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Il Fatto Quotidiano

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