Da anni denuncio un’alleanza criminale nella moda tra brand di lusso e caporalato: si tratta di un sistema

  • Postato il 4 dicembre 2025
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Dolce&Gabbana, Prada, Versace, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia, Off-White Operating.

Dall’alba fino alla sera di mercoledì il pubblico ministero Paolo Storari ha lavorato con i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro: ha notificato 13 ordini di consegna documenti ad altrettante case di moda. Tutte spuntate nei fascicoli sugli opifici cinesi clandestini nel ruolo di committenti, che affidano la produzione ad appaltatori e subappaltatori, che operano violando le leggi sul lavoro e la sicurezza.

Da anni denuncio – anche su queste pagine – l’esistenza di una vera e propria alleanza criminale tra grandi marchi del lusso e il sistema del caporalato che infetta le filiere del Made in Italy.

Oggi, grazie al lavoro della Procura di Milano, abbiamo l’ennesima conferma: tredici nuovi brand, da Versace a Gucci, da Prada a Dolce&Gabbana, sono stati raggiunti da ordini di esibizione documentale per il loro coinvolgimento, diretto o indiretto, in una catena produttiva fondata sullo sfruttamento.

Non si tratta di casi isolati. È un sistema. Un sistema che appalta e subappalta fino a sette livelli; che chiude gli occhi davanti a laboratori-dormitorio gestiti illegalmente, dove lavoratori e lavoratrici – spesso migranti – sono costretti a turni massacranti, senza diritti, senza sicurezza, senza dignità.

È lì che nascono le borse da migliaia di euro, prodotte a pochi spiccioli, con ricarichi fino al 10.000%. I brand si rifugiano dietro al loro prestigio, talvolta deridendo il lavoro della magistratura che lo sporcherebbe; si nascondono dietro alle leggi ad hoc apparecchiate dal Governo, dietro agli audit interni e a modelli organizzativi di facciata.

Tuttavia, la realtà è che in questi opifici si sanguina, si suda sfruttamento e ogni tanto si muore, come accaduto a quel giovane del Bangladesh, morto nel 2023 a Trezzano sul Naviglio durante il suo primo giorno di lavoro. Come tanti altri invisibili, sacrificati sull’altare del profitto.

Impossibile parlare ancora di “onore” dei marchi. Non basta più difendere l’immagine buona del Made in Italy, dei “ricchi brava gente”. Serve verità. Serve giustizia. Serve una riforma radicale delle filiere produttive. E serve il coraggio di dire i nomi. Perché chi produce lusso sulla pelle degli ultimi non può più nascondersi. La dignità del lavoro non è negoziabile e il vero prestigio dell’Italia non sta nei loghi cuciti sulle etichette, ma nei diritti garantiti a chi quelle etichette le cuce.

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Il Fatto Quotidiano

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