Crisi climatica, lo storico Tecchiati: “Le società preistoriche avevano un legame fisico con la Natura, che noi abbiamo perso”
- Postato il 5 novembre 2025
- Ambiente
- Di Il Fatto Quotidiano
- 1 Visualizzazioni
“Lo scollamento tra la cultura e la natura è del tutto recente, almeno in senso relativo. È un portato di ascendenza platonica, poi giudaico-cristiana. Ma nelle società preistoriche si intuisce un legame profondo con il mondo fisico e reale, per cui una vera dicotomia tra uomo e natura non sembra essere esistito”. Umberto Tecchiati, archeologo ed ecologo della preistoria, è professore presso il Dipartimento di Beni Culturali e ambientali dell’Università di Milano. Autore del manuale Ecologia preistorica (UTET), interverrà con Cristina Miedico e Chiara Boracchi, il prossimo 11 novembre, a Bookcity Milano.
Cosa si intende per ecologia preistorica?
All’estero è una disciplina assai consolidata. Sostanzialmente è lo studio del rapporto tra le società del passato, le società preistoriche e protostoriche in questo caso, e il loro ambiente, e si interessa allo sfruttamento delle risorse ambientali e alla costruzione del paesaggio. Precisiamo intanto che il periodo considerato è l’Olocene, ovvero l’arco temporale compreso tra il decimo millennio avanti Cristo e la romanizzazione, che avviene però in momenti diversi a seconda delle regioni. Diciamo comunque dal 9.500 a.c. circa fino agli ultimi decenni del primo secolo a.C.
Anche le società preistoriche incidevano sul paesaggio?
Certo, le società preistoriche agivano nel loro ambiente modificandolo. Questa alterazione è un costrutto culturale: ogni società umana imprime nel paesaggio un segno che è espressione della sua cultura. D’altro canto anche l’ambiente suggerisce a quelle comunità delle soluzioni e delle strade da percorrere, che ne segnano la struttura culturale, per cui c’è una relazione stretta e biunivoca tra l’ambiente e le società preistoriche.
Oggi siamo schiacciati sull’antropocene. “L’imprinting” delle società preistoriche conteneva già una traccia violenta?
Che una società eserciti un’influenza che ha caratteri in fin dei conti violenti e distruttivi è abbastanza naturale, ma ciò che distingue la devastazione attuale dall’impatto preistorico sull’ambiente è, all’atto pratico, la scala demografica e tecnologica. Tuttavia, un’inversione netta di tipo qualitativo si manifesta, a mio avviso, con il nuovo indirizzo di tipo ideologico inteso allo sfruttamento del creato che proviene dalla cultura giudaico-cristiana, e in modo esplicito dal Genesi. Questa visione che tutto giustifica è entrata profondamente nella dimensione cognitiva delle società “occidentali”, ma non è stato sempre così.
Lo scollamento tra cultura e natura quindi è un fenomeno del tutto recente?
Sì, tutte le popolazioni che impropriamente e razzisticamente chiamiamo “primitive” e che un tempo si chiamavano “popoli di natura”, non hanno con il loro ambiente un rapporto di pura depredazione o devastazione, è un rapporto di coesistenza in cui l’uomo si sente assolutamente parte del mondo come una pietra, un ruscello, un albero, un animale.
C’era anche un elemento spirituale?
C’era qualcosa che rendeva l’uomo, inteso come società e come collettività, parte inscindibile del mondo, non una parte separata dal mondo, ma una sua componente per così dire “necessaria ”. Si tratta di popolazioni che vivevano in una posizione di rispetto e di equilibrio che noi non conosciamo più.
Cosa accade, però, col passaggio all’agricoltura?
Nell’arco cronologico indagato dal volume assistiamo a una fondamentale transizione culturale che va dall’economia di caccia e raccolta all’economia agricola. Le bande di cacciatori e raccoglitori erano non molto numerose e la loro capacità di incidere sull’ambiente era limitata. La transizione agricola si compie a partire dal decimo millennio a.C. nella cosiddetta mezzaluna fertile, mentre in Italia arriva alla fine del settimo millennio. Però le comunità legate all’agricoltura dobbiamo immaginarcele diversamente da come facciamo.
In che senso?
Utilizzavano il fuoco per aprire spazi per l’agricoltura, una pratica distruttiva per la biodiversità, ma avevano consistenze demografiche alquanto modeste e comunque erano mobili, perché non conoscendo le tecniche di rigenerazione del suolo erano costrette a spostarsi appena i suoli si esaurivano. Insomma parliamo pur sempre di società che avevano perfettamente idea di come interagire e ancora molto fuse con la natura.
Quali sono stati invece i primi errori compiuti verso l’ambiente?
L’erosione dei versanti attivata attraverso il disboscamento per le necessità dell’agricoltura e dell’edilizia. Il disboscamento dei versanti montani, appenninici o alpini, innesca processi erosivi negativi, che denudano il suolo, la vegetazione scompare o fatica a ricrescere; a tali criticità si pose rimedio con i terrazzamenti, muri eretti tra l’altro per impedire che la terra scivolasse a valle. Di nuovo, vorrei sottolineare la differenza con l’oggi e con la nostra possibilità di distruggere ovunque, perché abbiamo i mezzi tecnologici, la consistenza demografica e l’interesse economico a sfruttare l’ambiente ovunque.
Cosa possiamo, in definitiva, imparare da queste comunità?
Non è una buona idea chiedere a società che sono vissute migliaia e migliaia di anni fa delle ricette: le condizioni ambientali, tecnologiche e demografiche erano completamente diverse, però è intuitivo per tutti coloro che non siano pregiudizialmente ostili a riconoscere l’esistenza di una crisi climatica e ambientale in atto. Serve una rivoluzione culturale per arrivare a stringere con il mondo in cui viviamo un patto reciproco di sopravvivenza. Da questo punto di vista trovo che le società preistoriche avessero, in questo, una saggezza che abbiamo perso, la saggezza dell’equilibrio, quella che porta a non segare il ramo su cui siamo seduti.
L'articolo Crisi climatica, lo storico Tecchiati: “Le società preistoriche avevano un legame fisico con la Natura, che noi abbiamo perso” proviene da Il Fatto Quotidiano.