Così il Medioriente si trova in una spirale di escalation senza fine
- Postato il 14 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Sviluppi preoccupanti continuano a emergere mentre il Libano scivola in una fase pericolosa di escalation interna, mentre il sud della Siria vive un rapido deterioramento del quadro di sicurezza. Tutto ciò avviene in parallelo all’accelerazione delle operazioni israeliane a Gaza, che riportano la regione in una spirale di escalation senza fine e ridisegnano le dinamiche del confronto su più fronti.
L’approccio di Israele verso Gaza si è spostato verso un controllo totale — qualcosa che non dovrebbe sorprendere. In realtà, i passi intrapresi negli ultimi mesi stavano già preparando il terreno per un dominio completo sulla Striscia. Evitando di usare il termine “occupazione” e preferendo parlare di “controllo”, l’intento resta lo stesso. L’obiettivo dichiarato, in linea con l’approvazione statunitense, è sconfiggere Hamas, eliminare la sua capacità militare e consegnare Gaza a forze arabe — un’idea problematica fin dall’inizio. Non esistono forze arabe credibili in grado di agire come peacekeeper senza, prima o poi, entrare in conflitto diretto con le fazioni palestinesi sul terreno.
Questa complessità è stata la giustificazione di Netanyahu per proseguire l’operazione militare, rinviando qualsiasi discussione seria sul trasferimento del potere a una forza regionale araba non considerata ostile da Israele — e respingendo con fermezza qualsiasi ruolo per l’Autorità Palestinese.
Negli ultimi mesi Israele ha lavorato per mettere in sicurezza i confini, frammentare Gaza in zone gestibili e stabilire una fitta rete di controllo. Nella visione israeliana, un cessate il fuoco significa una sola cosa: il ritorno degli ostaggi. Ma sconfiggere Hamas resta la linea rossa: senza questo risultato, nessun accordo è accettabile. Per Israele, la guerra può finire solo quando la realtà di Gaza sarà cambiata radicalmente, trasformandola in uno spazio che non possa più essere utilizzato come piattaforma di lancio per attività ostili.
Da qui la strategia attuale: stringere il controllo su confini e valichi, imporre una divisione del territorio basata sulla sicurezza e spingere verso uno spostamento demografico. Israele insiste sul fatto che la convivenza con l’alta densità di popolazione di Gaza — vista come un bacino sociale per i movimenti militanti — non sia più sostenibile.
Parallelamente, Israele si prepara seriamente al fronte libanese. Uno degli obiettivi principali delle prime fasi della guerra era trasformare Hezbollah da attore regionale capace di condurre una guerra transfrontaliera in un peso interno — un partito politico armato all’interno di un sistema libanese fragile. Oggi, questo obiettivo appare sempre più chiaro.
Israele si aspetta una reazione di Hezbollah — sia politica che attraverso azioni militari mirate — ma sa bene che il partito non ha interesse ad aprire una guerra su vasta scala. Ciò che Hezbollah vuole è esercitare pressione senza arrivare al collasso: usare la minaccia della guerra per mettere sotto massima pressione il governo libanese, nella speranza di spingere gli attori internazionali a intervenire per congelare o rinviare il processo di disarmo, che il partito vede come un possibile innesco di disordini civili.
Tuttavia, le manovre di Hezbollah, nel contesto dell’escalation regionale e in particolare in Siria, aumentano il rischio di scontri interni in Libano. Le proteste potrebbero facilmente degenerare in violenti scontri settari e fazionali, portando al collasso del governo centrale e spingendo vari gruppi a ritagliarsi sfere di influenza su diversi territori.
Lo scenario siriano segue una traiettoria simile. Il sud della Siria — in particolare Suwayda — è diventato negli ultimi mesi il centro operativo e umanitario di una complessa guerra ibrida. Si tratta di un conflitto a bassa intensità ma di alto valore strategico, caratterizzato da operazioni militari metodiche, infiltrazioni transfrontaliere, attacchi settari e progressiva erosione dell’autorità dello Stato siriano a favore di attori non statali sostenuti da potenze straniere.
In prima fila tra questi attori c’è l’Iran, che cerca di ridurre la pressione su di sé alleandosi con forze locali e ostacolando ogni sforzo israeliano di creare zone cuscinetto lungo il confine. Questa dinamica aumenta la probabilità di conflitti armati tra comunità.
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