Cosa ci resta da celebrare in questa Giornata della Terra che tutti ignorano? Non fatemelo dire

  • Postato il 22 aprile 2025
  • Ambiente
  • Di Il Fatto Quotidiano
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A cosa serve celebrare la 55a Giornata mondiale della Terra in un momento dove tutti della povera Terra se ne fregano? Nel 1970 dei danni ambientali si sapeva piuttosto poco. Si percepiva che l’inquinamento aumentava che la distruzione delle foreste e degli animali selvatici procedeva come mai prima, ma non c’erano dati precisi, programmi di osservazione satellitari, istituti di ricerca e ricercatori formati in discipline specifiche.

Eppure, insieme al popolo americano fu la politica a decidere che era fondamentale occuparsi del tema, e l’iniziativa di istituire il 22 aprile come giorno di riflessione sullo stato della Terra fu presa dal senatore democratico Gaylord Nelson. La data fu scelta con cura per massimizzare la partecipazione dei giovani studenti, in un periodo libero da esami. Venti milioni di americani – il dieci percento della popolazione di allora – scesero in piazza, le università ribollivano di incontri e manifestazioni, la coscienza ambientale si strutturava a tutti i livelli. La grande partecipazione popolare accelerò il processo di costituzione dell’EPA, l’agenzia ambientale degli Stati Uniti che il presidente Nixon rese operativa nel dicembre 1970 con 5800 dipendenti e 1,4 miliardi di dollari di risorse.

Nei cinquant’anni successivi accaddero due fatti importanti: da un lato la ricerca scientifica acquisì con sempre maggior dettaglio le prove dei danni ambientali e climatici inflitti dalle attività umane, dall’altro la politica internazionale si organizzò per contrastarli: le Nazioni Unite in particolare fondarono la propria autorità ambientale – l’UNEP – nel 1972, e quella climatica, l’IPCC, nel 1988. Nel 1992 alla conferenza di Rio de Janeiro tutti i paesi firmarono la convenzione quadro sul clima (UNFCCC), che aprirà la strada al Protocollo di Kyoto (1997) e all’Accordo di Parigi (2015). Molti altri accordi internazionali vennero raggiunti come il Protocollo di Montreal contro i clorofuorocarburi che provocavano il buco dell’ozono, e altri trattati sulla biodiversità e la salvaguardia delle risorse naturali. Un processo lento, pieno di ostacoli, ancora insufficiente, ma almeno fino a un paio d’anni fa accettato da tutti, un cammino in atto che aveva portato a formulare vari “Green Deal” dagli Stati Uniti all’Europa, alle Nazioni Unite.

Ma veniamo a oggi. Tutta la fragile politica ambientale e climatica sembra crollare di fronte allo sconquasso generato dalle due guerre in Ucraina e in Palestina. Gli umani impazziti guardano soltanto ai nuovi assetti geopolitici, al riarmo e a un’anacronistica spinta bellicista per risolvere le loro capricciose controversie. Trump ritorna a sostenere le energie fossili, drill baby drill, smantella ciò che il popolo americano aveva fortemente voluto mezzo secolo prima, irride la scienza, indebolisce l’EPA, rinnega decreti di salvaguardia ambientale, licenzia personale altamente specializzato nella NOAA, l’ente meteorologico e oceanografico federale, solo perché si occupano di misurare e prevedere i cambiamenti climatici.

L’Unione Europea che tanto aveva puntato sul proprio Green Deal, oggi non ne fa più una priorità ma lo mortifica con 800 miliardi di euro destinati dalla sera alla mattina al riarmo. Come mai così tanti soldi e subito non erano saltati fuori prima per le energie rinnovabili, per l’agricoltura sostenibile, per la protezione della biodiversità? Capitoli di spesa per i quali anzi ci si lamentava sempre che i fondi mancavano, che i costi per l’economia e il lavoro sarebbero stati troppo alti… E per missili e carri armati non sono forse altissimi e rivolti a distruggere invece che a costruire?

Questa colossale retromarcia verde ci porta molto più indietro del 1970. Per due motivi. Il primo è che oggi sappiamo molto di più dei rischi climatici e ambientali che corriamo ma li ignoriamo volutamente. Abbiamo un’immensità di dati e programmi di osservazione della Terra affidabili e innovativi che ci avvertono dei guasti irreversibili che stiamo compiendo. Disponiamo di indicatori schiaccianti, i “limiti planetari” elaborati nel 2009, soglie da non superare per non portare al collasso il pianeta e la nostra specie: su nove processi fondamentali, sei superano già oggi la soglia di sicurezza, quindi non vedere queste spie rosse che lampeggiano sul cruscotto dell’astronave Terra è un atto doloso e assai stupido, come se piloti inesperti intenti a litigare tra loro ignorassero gli allarmi degli impianti che li mantengono in volo. Abbiamo Internet, che permette di diffondere e condividere in tempo reale dati prima impensabili: immagini satellitari gratuite, simulazioni climatiche, banche dati che sono la base per le decisioni sagge e razionali: tutto ignorato e sovvertito dalle fake news.

Il secondo motivo che ci distanzia ancor più dal 1970 è la mancanza di reazione politica (almeno di quella poca politica che ancora dovrebbe occuparsi del pianeta) e popolare: dov’è un senatore Nelson? Dove sono i 20 milioni di americani in piazza? Certo, abbiamo avuto il breve exploit di Greta Thunberg e dei Fridays for Future, ma ora non si vedono più, complici anche i provvedimenti restrittivi che in nome della sicurezza condannano anche una innocente manifestazione ambientalista alla galera.

Cosa ci resta dunque da celebrare in questa Giornata della Terra 2025? Non fatemelo dire. C’è pure una luce che si è spenta ieri, papa Francesco, unico grande leader globale – insieme al segretario Onu Antonio Guterres – che si è sinceramente speso per il clima e l’ambiente. Da perito chimico quale era, conosceva benissimo i problemi indotti dalla CO2, e li aveva ben descritti – con l’aiuto dei maggiori scienziati mondiali a cui aveva dato ascolto – nell’Enciclica Laudato Si’ del 2015. Nel 2023 era ritornato sul tema con l’esortazione apostolica Laudate Deum, nella quale si lamentava della mancata azione nel ridurre le emissioni globali, nonostante fossero già trascorsi otto anni dalla ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.

Un papa che non aveva mai perso l’occasione di riconoscere il gigantesco danno ambientale e sociale in atto con la devastazione irreversibile della nostra casa comune: un ruolo di guida al rispetto ambientale che gli è stato riconosciuto più da chi con la religione non aveva particolare familiarità che dai suoi stessi colleghi e seguaci. La crisi ambientale, che Francesco aveva perfettamente compreso essere sistemica, inedita, gigantesca e minacciosa per le sorti umane tanto quanto le armi nucleari, è oggi come non mai sottovalutata, trascurata e avversata. Money first!

La prova di questa sottovalutazione sta nei commenti e nei ricordi pronunciati alla morte di Bergoglio: si sono sprecati i riferimenti alla dedizione verso i più deboli, i poveri, gli ultimi, i migranti. Certo, tutte cose rilevantissime, ma che ci si aspetta siano ovvie per un cristiano. Pochissimi hanno invece messo in evidenza il suo straordinario impegno per il clima e l’ambiente, quasi come se fosse stato un suo vezzo eclettico, un qualcosa che c’entrava poco con le persone e con Dio. Con la sua immensa simpatia e autorevolezza Francesco, ispiratosi all’autore del Cantico di ottocento anni fa, ha cercato di veicolare questo cruciale messaggio per l’umanità, la difesa della casa comune senza la quale non possiamo esistere, ma questo aspetto così originale, mai così ben esplicitato da altri pontefici, è stato mi pare sottaciuto, rimosso, minimizzato, quasi a non volerne avallare l’importanza che egli gli aveva conferito con le parole e con i gesti (qualche pannello solare in più sui tetti di seminari e collegi forse grazie a lui produce oggi energia a zero emissioni).

Justin Worland, giornalista ambientale sul Time, è tra i pochi a chiamarlo “The Climate Pope”, ma nel riconoscere la sua instancabile attività in difesa del clima ci mette in guardia: “molti dei suoi potenziali successori hanno poco interesse per l’agenda climatica”. Preghiamo affinché Dio, che regna pure sulla termodinamica, li illumini.

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Il Fatto Quotidiano

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