Cop30 in Brasile, dalle fonti fossili alla finanza, gli obiettivi e i ruoli delle super potenze: Usa defilati, Pechino a dominare sui dossier. Per l’Ue un bivio
- Postato il 3 novembre 2025
- Ambiente
- Di Il Fatto Quotidiano
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Passare da impegni e negoziazioni alle azioni concrete. È questo l’arduo compito che avrà la Cop 30, Conferenza delle Parti sul Clima che inizierà ufficialmente il 10 novembre a Belém, in Brasile. Preceduta, questa volta, dal summit dei leader che si svolgerà tra il 6 e il 7. I tavoli sono tanti, i punti di scontro pure. Si ruota intorno a tre obiettivi principali: arrivare a 1300 miliardi da mobilitare entro il 2035 per i Paesi in via di Sviluppo, mettere in primo piano le risorse per l’adattamento e dare seguito all’impegno di avviare una transizione che porti all’abbandono dei combustibili fossili. Quello preso a Dubai, nel 2023 e che molti Paesi vorrebbero far dimenticare. Perché questo è un momento storico di attaccamento (se non potenziamento) delle fonti fossili. Non è una Cop qualunque, perché si organizza a dieci anni dall’Accordo di Parigi e perché si terrà in un territorio indigeno, nel bel mezzo dell’Amazzonia, uno dei maggiori bacini di assorbimento di anidride carbonica, dove le attività umane (prima ancora del cambiamento climatico) ha gli effetti più devastanti. Il Brasile è un Paese dove le contraddizioni sul delicato terreno del riscaldamento globale non sono scomparse con il ritorno al potere di Luiz Inácio Lula da Silva. Anche se il presidente ha voluto il vertice in patria, mentre nel 2019 l’ospitalità già prevista per la Cop 25 fu annullata da Jair Bolsonaro. La Cop 30 si tiene lì dove tutto è iniziato nel 1992, durante il primo Summit sulla Terra che si svolse proprio in Brasile, quando fu firmata la Convezione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc). Da allora ogni anno le parti firmatarie si incontrano alla Cop (Leggi l’approfondimento).
La Cop 30 a dieci anni dall’Accordo di Parigi
Ma come ci si arriva a dieci anni dall’Accordo di Parigi? Il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato a livello globale, con una temperatura media per la prima volta oltre la soglia di +1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, prevista proprio dall’accordo di Parigi (ma su un periodo di vent’anni). C’è una consapevolezza: bisogna puntare a quell’obiettivo, pur sapendo che non lo rispetteremo, perché è l’unica chance che il pianeta ha per evitare l’irreversibilità del processo. A fine secolo, in soldoni, dovremmo tornare indietro. “Nel 2015, però, i paesi avevano politiche anche avrebbero portato il pianeta verso i 3,9 gradi, in dieci anni si è scesi a un’aspettativa di 2,4 gradi” spiega Luca Bergamaschi, direttore e co-fondatore di Ecco, il Think tank italiano sul clima. E aggiunge: “Da Parigi, il costo delle tecnologie si è abbassato, per le rinnovabili in media dell’85 per cento e per le batterie del 90 per cento. Nel 2024 per la prima volta la produzione elettrica da rinnovabili ha superato quella da carbone e gli investimenti in rinnovabili sono doppi rispetto a quelli nelle fossili nel 2024”. Resta il fatto che, proprio secondo l’Accordo di Parigi, la quota di finanza verde da mobilitare al 2030 deve essere tre volte quella di oggi. “Siamo andando nella direzione giusta – spiega – ma ci stiamo andando troppo piano”.
Usa assenti (o quasi), Cina dominante, Unione Europea al bivio
Il momento storico e la situazione geo-politica non aiutano. Tornato Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti sono ancora una volta prossimi all’uscita dall’Accordo di Parigi, ma non dall’Unfccc. La loro politica economica è molto distante da una eventuale uscita dall’era fossile). Fuori dai giochi gli States, la Cina avrà una posizione dominante su tutti i dossier, così come accaduto negli ultimi vertici ma, anche se vola sulle rinnovabili, ci si aspetta più chiarezza sui tempi di uscita dal carbone. È proprio con Pechino che l’Ue dovrà lavorare. Insieme alle potenze emergenti, a iniziare dall’India. A pochi giorni dall’apertura della COP30 in Brasile, le Nazioni Unite hanno avvertito che gli impegni presentati dai Paesi per ridurre le emissioni di gas serra sono “molto lontani dal necessario”, stimando un taglio complessivo di appena il 10% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) ha stabilito che le emissioni dovrebbero diminuire del 60% entro il 2035 per rispettare la soglia di 1,5 °C. Ma il quadro globale è incompleto, poiché solo 64 dei quasi 200 Stati firmatari dell’Accordo di Parigi hanno presentato in tempo i propri Contribuiti determinati a livello nazionale (Ndc). Il nuovo calcolo dell’Onu include le promesse della Cina – una riduzione del 7-10% – e la dichiarazione d’intenti dell’Unione Europea, che non ha ancora presentato l’Ndc, ma punterebbe a tagli tra il 66 e il 72,5% rispetto al 1990. Paradossalmente tra i 64 Ndc presentati c’è quello (ritirato) degli Usa, ma manca quello Ue. Cruciale il prossimo Consiglio Ambiente straordinario, perché l’obiettivo al 2035 da includere nell’Ndc deriverà dal target al 2040. Per Bruxelles, infatti, l’obiettivo ufficiale è quello decennale. Si stanno discutendo alcune flessibilità che permetterebbero alla presidenza Ue di non ritoccare formalmente quel taglio delle emissioni del 90% (rispetto ai livelli del 1990) entro il 2040, già proposto dalla Commissione Ue. Le flessibilità e il target stesso spaccano l’Europa, così come ha fatto il Green Deal. Sarà motivo di perdita di credibilità internazionale? Probabilmente dipenderà dai numeri a cui porterà la revisione ancora in atto con il Pacchetto Omnibus.
Cosa è stato fatto alle ultime Cop
Quella brasiliana è la Cop della concretizzazione, perché su molti temi la negoziazione è conclusa o quasi. Certamente sulle questioni principali concordate a Parigi dieci anni fa. Nel 2022, alla Cop 27 di Sharm El-Sheik, in Egitto, è stato lanciato il fondo Loss and damage per risarcire i Paesi più poveri e vulnerabili del mondo per le perdite e i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici (sacrificando il percorso di abbandono dei combustibili fossili). Nel 2023, alla Cop 28 di Dubai, negli Emirati Arabi, è entrato a far parte della cover decision finale il primo Global Stocktake (Bilancio Globale), meccanismo previsto dall’articolo 14 dell’Accordo di Parigi, che prevede la revisione ogni 5 anni degli impegni presi dai Paesi sul taglio delle emissioni. Sempre a Dubai, è stato raggiunto un accordo per rendere operativo il fondo Loss and damage. L’anno scorso, alla Cop 29 di Baku, in Azerbaigian, dopo un decennio di discussioni sono state approvate le regole previste nell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi. È stato così ridisegnato il sistema di scambi di crediti di carbonio. “La questione lasciata in sospeso per 9 anni dei registri che tenessero traccia di come gli Stati si scambiano i crediti si è sbloccata, non ha caso, con l’uscita dall’accordo degli Stati Uniti, che da sempre chiedevano registri soft, mentre l’Ue li voleva più dettagliati per aumentare il livello di trasparenza” spiega Jacopo Bencini, presidente di Italian Climate Network. A Baku, inoltre, è stato trovato un accordo sul nuovo obiettivo finanziario internazionale (il New Collective Quantified Goal), anche questo previsto da Parigi: 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 (vs necessità stimate di circa 900 miliardi all’anno al 2025), per poi aumentare tutti i flussi finanziari, pubblici e privati, verso i Paesi in via di sviluppo per arrivare a fino a 1300 miliardi da mobilitare entro il 2035, contando anche i flussi provenienti dalle banche multilaterali di sviluppo.
Le questioni rimaste sul tavolo: la finanza resta prioritaria
“Leggendo le agende della Conferenza delle Parti sul clima, si nota che vengono aperti tutti i tavoli negoziali lasciati in sospeso e il cui percorso dovrebbe portare verso il prossimo Global Stocktake del 2028” spiega Bencini. Con l’obiettivo di facilitare la realizzazione di questo obiettivo è stata anche introdotta la road map Baku to Belem a cui stanno lavorando Azerbaigian e Brasile. L’India, a nome della coalizione dei paesi in via di sviluppo del G77+China (che però è ormai una potenza economica), chiede maggiore trasparenza e regole vincolanti su accesso e rendicontazione dei fondi. Saranno presentati tre report, per l’adozione da parte della Cop 30, sul Green Climate Fund, sul Global Environment Facility (Fondo mondiale per l’ambiente) e, per la prima volta, il report sul fondo Loss and Damage (Leggi l’approfondimento su cosa sta facendo l’Italia). Come spiegato da Federica Fricano, capo negoziatore alla Cop 30 per il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, nel corso di un recente webinar organizzato da Ecco, c’è una questione divisiva che riguarda l’Articolo 9 dell’Accordo di Parigi. I Paesi in via di sviluppo chiedono di inserire al comma 1 l’obbligo per i Paesi sviluppati di fornire risorse (quindi finanza pubblica). Per Fricano, si tratta di un’impostazione “lontana dall’Accordo di Parigi” dietro la quale ci sarebbe una ‘condicio sine qua non’ imposta ai paesi sviluppati. Se non forniscono risorse, insomma, i Paesi in via di sviluppo sarebbero legittimati a non andare avanti sul fronte della riduzione delle emissioni. Un braccio di ferro che da anni fa da sfondo alle Cop (e non solo), insieme a quello sui Paesi che dovrebbero o non dovrebbero far parte ufficialmente della lista dei donatori.
Il nodo dell’adattamento
Centrale sarà il nodo sull’adattamento e sulle misure necessarie per difendersi dagli effetti dei cambiamenti climatici. In questo ambito tutto si complica. Se per valutare gli interventi di mitigazione serve soprattutto analizzare la riduzione delle emissioni, l’analisi di eventuali progressi nell’adattamento è molto più difficile, perché sono diverse le varianti da Paese a Paese. Sul tavolo sono stati portati 100 indicatori (anche finanziari), che si ridurranno in base alle raccomandazioni che vengono date proprio in queste ore. E queste sono anche le misure più difficili da finanziare, perché i progetti riguardano i paesi più vulnerabili rispetto agli eventi estremi. Quest’anno scade l’obiettivo di duplicare la finanza per l’adattamento e bisognerebbe arrivare a un nuovo target. I paesi Ldc (Least Developed Countries), quelli meno sviluppati secondo la classificazione delle Nazioni Unite, propongono di triplicare i livelli del 2022 entro il 2030. Il 29 ottobre, nel giorno in cui la Giamaica veniva devastata dall’uragano Melissa e dalle conseguenti inondazioni e frane, l’Adaptation Gap Report 2025 dell’Unep sanciva che serviranno, a livello globale, 310 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per prepararsi agli effetti dei cambiamenti climatici. Significa 12 volte l’importo attualmente speso.
Il Mitigation Work Program fermo da due anni e la Giusta transizione
Una serie di tavoli negoziali saranno impegnati a risolvere questioni cruciali sul fronte della riduzione delle emissioni e della transizione energetica. In particolare, il Mitigation work programme è fermo da due anni. Il problema è che manca il consenso politico su come implementare il Global Stocktake del 2023 e su come arrivare al Global Stocktake del 2028. E lo scontro parte da quella formula scritta a Dubai, nel 2023, che recitava “transitioning away (transizione in uscita) dalle fonti fossili” da avviare entro questo decennio. Per la prima volta in un testo della Conferenza delle parti sul clima era incluso il termine ‘combustibili fossili’, anche se non si faceva riferimento al phase-out (uscita), richiesto da 127 Paesi su 198 (compresa l’Ue). E le contraddizioni già c’erano. Di fatto, la maggioranza dei Paesi vorrebbe che quell’impegno fosse dimenticato. Se, invece, la Cop 30 sorprendesse, la conferma del percorso di abbandono dei combustibili potrebbe arrivare anche con una road map, sul modello di quanto fatto per la finanza. “Uno dei punti di scontro è quello sulle misure unilaterali e, in modo particolare – ha raccontato Federica Fricano – il Cbam, il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere”. In pratica, la tassa sull’anidride carbonica incorporata o emessa per la produzione dei beni importati in Europa dai Paesi extra europei. La misura avrà un impatto significativo sulle esportazioni cinesi verso l’Europa. “Alcuni Paesi, soprattutto la Cina – ha spiegato – chiedono di discutere queste misure in contesti anche diversi da quelli deputati e questa istanza sta avvelenando il negoziato sulla Giusta Transizione”.
Dalle alleanze agli altri temi focus
Stando alle ormai otto lettere inviate ai delegati dal presidente della Cop 30, Andrè Correa do Lago, sembra che in questa Conferenza delle Parti avranno un ruolo importante le iniziative collaterali, le alleanze che si creeranno e le dichiarazioni di alto livello. Il Governo brasiliano che cercherà di raccogliere firme e adesioni su alcune iniziative e ha già individuato alcuni assi tematici (energia, industria e trasporti, foreste, oceani e biodiversità, agricoltura e sistemi alimentari, città infrastrutture e acque, sviluppo umano e sociale). Avvenne anche nel 2021, alla Cop 26 di Glasgow. Si ricordano gli accordi extra-negoziali su carbone, nuovi giacimenti oil and gas oltremare, metano e deforestazione. Alcune di quelle iniziative sono rimaste sulla carta, così come alcuni degli impegni di finanza pubblica degli Stati. Questa volta, però, ci si aspetta un coinvolgimento maggiore dai Paesi del Sud del mondo.
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