Diritto alla disconnessione, una guida per uscire dalla schiavitù del telefono. L’esperto: “La nostra vita non appartiene alle Big Tech”
- Postato il 29 ottobre 2025
- Ambiente
- Di Il Fatto Quotidiano
- 1 Visualizzazioni
Si definisce un “sostenitore delle cose reali” Paul Greenband, giornalista statunitense, scrittore e autore di Bye Bye Smartphone. 60 modi per disconnettersi alla tecnologia e riconnettersi al mondo (edizioni Terranuova), un libro in cui spiega come e perché ridurre progressivamente la dipendenza digitale. Greenband, che per lavoro viaggia e scrive reportage su come salvare la natura, ha iniziato a occuparsi di smartphone quando è nato suo figlio. “I telefoni sono sempre più intrecciati alle nostre vite. È ciò che vuole il capitalismo della sorveglianza. Quando ci si rende conto di questo, si comincia a chiedersi perché ogni attività debba passare dal telefono. Mi piace dire che le nostre menti sono un po’ come i corpi dei nativi americani quando gli europei introdussero il vaiolo nel Nuovo Mondo: quei popoli non avevano difese. Allo stesso modo, le nostre menti non erano preparate a questo virus mentale”.
Ormai ci sono migliaia di app che monitorano sonno, risveglio, salute, eccetera. Anche per questo è diventato sempre più difficile fare a meno del telefono?
Io chiedo: ma solo perché esistono queste app significa che dobbiamo usarle? Ho detto di recente a un’amica che avevo ripreso a meditare. Sapendo che non uso lo smartphone, mi ha chiesto: “Ma come fai senza HeadSpace?”. Eppure le persone meditano da tremila anni senza HeadSpace. Anche lo scopo delle app di fitness non è migliorare la nostra salute, ma occupare il nostro tempo. Le ricerche dimostrano che usarle durante l’attività fisica porta a comportamenti competitivi malsani, a esagerare, a farci male e, di conseguenza, a rallentare il nostro vero percorso verso il benessere.
E quelle di navigazione?
Non nego che siano utili, ma perché dovremmo usarle nella nostra stessa città? Se metti via il telefono per qualche giorno e impari a orientarti da solo per le tue strade, ti assicuro che ti sentirai più lucido.
Lei suggerisce di costruire relazioni come forma di “disintossicazione” dallo smartphone. Perché questo aspetto è così importante e allo stesso tempo così trascurato?
Le persone reali sono difficili, imperfette e non sempre come le vorremmo. I telefoni, invece, sono lisci, puliti e si adattano ai nostri desideri. Il buddismo insegna che le persone più difficili nella nostra vita sono i nostri migliori maestri. Quando superiamo le difficoltà con amici e familiari, troviamo reciprocità. Abbiamo lasciato che questo muscolo della socialità si atrofizzasse. Ricostruirlo può renderci più felici.
A suo avviso la giornata dovrebbe essere divisa in tre parti: una dedicata al lavoro, una alla propria vocazione e una alla costruzione della comunità. Può approfondire questa riflessione?
Questo concetto deriva dagli scritti di Helen e Scott Nearing, considerati i primi “ritornati alla terra” in America. I Nearing vissero davvero “buone vite”, creando fattorie autosufficienti e morendo entrambi in salute intorno ai cent’anni. La loro divisione della giornata in tre parti è, a mio avviso, una delle migliori che abbia mai incontrato, e cerco di seguirla anch’io.
Lei parla anche di una “politica digitale familiare”. Come possiamo metterla in pratica, coinvolgendo anche gli adolescenti?
Questo non è un problema degli adolescenti: è un problema della società. Se, come generazioni, riusciamo a riconoscere che tutti vogliamo passare meno tempo sui telefoni, possiamo creare insieme spazi sicuri e senza smartphone. Un buon punto di partenza è la tavola. Ne sto parlando con Slow Food: credo che la prossima campagna di Terra Madre dovrebbe chiamarsi “Slow Phone”. Il telefono non ha posto nella sala da pranzo.
Lei sostiene che le attività offline dovrebbero includere anche la tutela dell’ambiente. Perché?
Sottovalutiamo il potere della mente umana quando pensiamo di avere solo cinque sensi. Siamo più grandi di così. Entrare in contatto con la natura, sia per proteggerla sia solo per osservarla, può risvegliare in noi un senso di meraviglia. Provare stupore, sentire intuitivamente la vastità dell’universo e riconoscere di essere fortunati a farne parte risveglia sensi che non sapevamo di avere.
Cosa possiamo fare, concretamente?
Il primo passo è capire che non ogni momento della nostra vita appartiene alle Big Tech. Abbiamo diritto al nostro tempo non sorvegliato, anche se questo può significare sacrificare un po’ di lavoro per rivendicarlo. E poi c’è l’aspetto pratico.
In che senso?
Anzitutto, rendere il telefono più “stupido”. Cal Newport suggerisce di eliminare tutte le app non essenziali e aggiungerle solo se strettamente necessarie. Impostare lo schermo in bianco e nero aiuta a ridurne l’attrattiva. Gli smartphone replicano le nostre “case digitali” — se non spezziamo l’incantesimo quando usciamo, restiamo intrappolati nel mondo creato dai designer delle app. L’unico modo per spezzarlo è non avere accesso a quella falsa casa digitale.
Lei come fa?
Io uso telefono a conchiglia come principale mezzo di comunicazione. Ho anche un iPhone per lavoro, ma con una SIM che posso rimuovere e inserire nel mio flip phone una volta terminato.
Il diritto alla disconnessione ha anche un valore politico e sociale?
Tutti sanno che lo smartphone è una porta d’accesso al lavoro — e che quella porta è sempre aperta. Prima, sarebbe stato impensabile per un datore di lavoro chiamarti a casa. Ora, poiché lo schermo del telefono è lo stesso sia per il lavoro che per il tempo libero, il confine tra i due è scomparso.
Infine: come si inserisce questa riflessione nella nuova realtà digitale dell’intelligenza artificiale?
Il mondo è vasto, e l’intelligenza artificiale offre solo una minuscola parte delle risposte alle grandi domande della vita.
L'articolo Diritto alla disconnessione, una guida per uscire dalla schiavitù del telefono. L’esperto: “La nostra vita non appartiene alle Big Tech” proviene da Il Fatto Quotidiano.