Con l’Iran in un angolo, sembra affievolirsi la resistenza a un negoziato con gli Usa

  • Postato il 17 aprile 2025
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Con una mossa audace e inattesa, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha sorpreso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu rivelando l’esistenza di colloqui diretti con l’Iran, ospitati in Oman. In un momento in cui Netanyahu spingeva per un’escalation militare rapida, escludendo ogni spazio per la diplomazia, Trump ha cambiato rotta, mettendo apertamente sul tavolo l’ipotesi di un accordo immediato con Teheran, dopo settimane di mobilitazione militare e minacce pubbliche.

Netanyahu si è allineato alla posizione americana, sottolineando che qualsiasi trattativa dovrà includere concessioni significative da parte iraniana, simili a quelle del regime libico quando accettò ispezioni internazionali e lo smantellamento del proprio programma nucleare. Tuttavia, ha ribadito la sua convinzione che l’opzione militare resti la più probabile, ritenendo che Teheran difficilmente offrirà compromessi reali.

Per comprendere perché oggi l’Iran possa riconsiderare la propria posizione, è necessario leggere con attenzione la nuova mappa geopolitica. Eventi recenti hanno profondamente mutato il contesto operativo della Repubblica islamica: l’uccisione di Qassem Soleimani, la misteriosa morte del presidente Ebrahim Raisi e una serie di riallineamenti strategici hanno spinto Teheran in un angolo, da cui la trattativa può apparire come l’unica via d’uscita praticabile.

Perché l’Iran dovrebbe prendere sul serio l’attuale postura militare americana? Perché arriva al termine di una lunga campagna per smantellare, in modo sistematico, la proiezione di potere regionale di Teheran. La dottrina della “Unità dei Fronti”, che aveva permesso all’Iran di esercitare influenza su più scenari di crisi, viene oggi gradualmente smontata, teatro dopo teatro.

A Gaza, Hamas e la Jihad Islamica sono state duramente colpite. In Cisgiordania, le reti clandestine vengono smantellate. Hezbollah, principale braccio armato di Teheran in Libano, affronta crescenti restrizioni. Persino il regime siriano, alleato storico dell’Iran, appare ormai logorato. Nel loro insieme, questi sviluppi indicano che, per la prima volta dopo anni, un’azione diretta contro l’Iran non solo è concepibile, ma strategicamente realizzabile.

All’Iran restano ormai solo due fronti di manovra: l’Iraq e lo Yemen. Ma anche su questi versanti, la pressione americana si è intensificata. Washington si sta muovendo con decisione per neutralizzare definitivamente i ribelli Houthi, mentre in Iraq le milizie filo-iraniane sono nel mirino, in un clima di crescente tensione alimentato da rapporti sull’eventuale trasferimento di armamenti strategici iraniani sul suolo iracheno in vista di un possibile conflitto.

Sebbene Teheran abbia a lungo resistito a negoziare con l’amministrazione Trump – e nonostante le dichiarazioni contraddittorie dei suoi leader, incluso la Guida Suprema Ali Khamenei – tale resistenza sembra ora affievolirsi. I segnali suggeriscono che colloqui, diretti o indiretti, siano già in corso e sempre più incardinati sui termini dettati da Trump.

All’interno dell’Iran, molti riconoscono che il tempo non gioca più a favore del Paese. L’equilibrio regionale si è spostato contro la linea dura, incarnata dai Guardiani della Rivoluzione (Irgc), che avevano consolidato il proprio potere interno grazie all’espansione esterna. Ma le recenti sconfitte hanno lasciato il corpo militare politicamente vulnerabile.

La strategia americana della massima pressione ha avuto successo nel trasformare una crisi esterna in una crisi interna – economica, sociale e politica – che potrebbe richiedere non solo un cambiamento di rotta, ma una revisione radicale della retorica, della leadership e della strategia nazionale.

L’opzione militare resta sul tavolo, soprattutto se l’obiettivo americano dovesse diventare quello di colpire direttamente le frange più radicali per indebolirle o annientarle, imponendo così un cambiamento forzato a Teheran. L’inedita presenza militare degli Stati Uniti nella regione non è un simbolo: è una minaccia tangibile. Le aperture al dialogo da parte di Trump non sono arrivate attraverso canali riservati, ma tramite avvertimenti espliciti lanciati sotto l’ombra delle portaerei e del potere aereo.

È per questo che questi negoziati, se avranno luogo, dovranno essere compresi non come un semplice esercizio diplomatico, ma come un momento cruciale. Una svolta. E, soprattutto, come un confronto sul futuro stesso della Repubblica islamica.

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