Comunali Genova, Toscano (Democrazia Sovrana e Popolare): “E’ l’ora di affrontare i problemi reali”
- Postato il 21 maggio 2025
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- Di Genova24
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Genova. Manca poco alle elezioni comunali 2025 a Genova – 25 e 26 maggio – e Genova24 ha voluto incontrare tutti i sette candidati e candidate alla poltrona di sindaco per affrontare alcuni dei temi principali del loro programma e fornire ai lettori uno strumento pratico per metterli a confronto. Francesco Toscano è il candidato sindaco alle comunali di Genova per Democrazia Sovrana e Popolare.
Toscano, rieccoci a distanza di qualche mese dalle elezioni regionali. Anche quella sfida elettorale l’hanno vista tra i candidati. Lei non è di Genova, insomma, non è un segreto, ma allora qual è il senso di questa candidatura?
“Ha fatto bene a ricordare la nostra candidatura alle ultime elezioni regionali, sembrava quasi una provocazione all’inizio, il nostro arrivo era stato vissuto con un po’ di insufficienza, siamo stati accolti quasi con un pizzico di ironia, poi però devo dire che il risultato complessivo è stato positivo, perché abbiamo eguagliato il risultato di forze molto più strutturate delle nostre e penso al senatore Morra, sostenuto dall’attuale consigliere comunale Mattia Crucioli e anche delle tre forze comuniste alleate intorno alla candidatura di Rollando. Io con Democrazia Sovrana e Popolare ho raggiunto un risultato sovrapponibile a quello di due candidati che obiettivamente erano molto favoriti rispetto alla nostra proposta, perché la nostra proposta è puramente di pensiero, noi non siamo espressioni di interessi territoriali, noi stiamo cercando di ribaltare un paradigma, in genere nelle elezioni amministrative, la comunicazione si concentra su questioni attinenti alle gestioni, all’amministrazione delle singole città o delle regioni, ma noi partiamo dal presupposto che questi non sono tempi normali.
Quindi vogliamo e possiamo sfruttare ogni occasione di dialogo con i cittadini, e i cittadini genovesi sono tanti, hanno una lunga tradizione di consapevolezza politica, proprio per cercare di spostare l’attenzione del dibattito da questioni importanti ma secondarie rispetto ad altre che invece oggi mettono in discussione la nostra democrazia, la nostra sicurezza, la nostra vita e non esistono elezioni amministrative che non abbiano un carattere politico,
Un risultato in una città come Genova cambia gli equilibri nel paese intero, cambia la discussione nel paese intero, per cui il nostro obiettivo è quello anzitutto di invitare i cittadini genovesi ad abbracciare una prospettiva di questo tipo, a non vivere la competizione per l’amministrazione della città, come se fosse una questione che riguarda solo Genova, ma è una questione che può indicare una via al paese intero”.
Da un punto di vista più globale, appunto, Genova è al centro del mondo per un tema caldo come quello delle guerre. Più volte si è parlato del nostro porto come di crocevia per l’industria bellica, tema caro anche a una figura come quella di Papa Francesco. Per voi che priorità ha la questione del riarmo?
“Genova è un grande porto, ha una grande storia, una storia di proiezione nel resto del mondo. Genova è una città che è abituata a non rinchiudersi in se stessa. La questione delle armi è una questione che va affrontata in termini seri. Perché noi siamo vittime di una classe dirigente politica che tende ad affidarsi in maniera critica alle euroburocrazie composte da personaggi non eletti e spesso non particolarmente brillanti. Questi signori rischiano di trascinare il nostro paese all’interno di una nuova guerra potenzialmente devastante senza che i cittadini riescano a comprendere precisamente i meccanismi che ci stanno trascinando dentro un potenziale conflitto nucleare. Il dibattito è assolutamente tacitato, i partiti di sistema non possono e non vogliono affrontare in termini strutturali questo argomento, si limitano a ripetere una storiella buona per addormentare i bambini, c’è uno cattivo e c’è un altro buono, per il resto la discussione si limita a qualche frase fatta.
I pochi che cercano di allargare il quadro, i pochi che cercano di spiegare di più alla pubblica opinione rispetto ai veri nodi che siamo chiamati ad affrontare, vengono spesso diffamati, bollati come “putiniani”, come nemici della democrazia, per cui la discussione è impedita in partenza. Noi vogliamo sfruttare ogni occasione per invece provare ad affrontare i temi reali, quelli che riguardano la fine di un modello di globalizzazione fallita, quelli che riguardano la crisi del mondo del lavoro, quello che riguarda la distrutturazione del welfare a vantaggio invece dell’industria delle armi. Vogliamo rimettere al centro il tema della democrazia che oggi è un tema centrale.
Fino a pochi anni fa nessuno di noi avrebbe pensato che una elezione legittima potesse essere annullata con decreto da qualche burocrate sulla base di presupposti molto fragili. Invece è successo in Romania pochi mesi fa, è successo in Grecia al tempo di Tsipras dieci anni fa, quindi non è neanche la prima volta che succede una cosa del genere. ma i cittadini non hanno piena consapevolezza del nuovo periodo che si è improvvisamente aperto di fronte ai nostri occhi.
Noi vogliamo essere un pungolo, non dico ‘grillo parlante’ perché è un’immagine che non porta fortuna, però noi vorremmo essere questo, una voce che non grida nel deserto, per provare a suscitare perlomeno un pizzico di curiosità in cittadini che altrimenti vivrebbero in maniera inerziale una competizione secondo schemi rituali che oggi non servono e che risultano banali e controproducenti”.
Parliamo di lavoro: Genova è una città che negli ultimi 50 anni è cambiata profondamente, passando da un’industria pesante a un’economia basata molto su terziario e turismo. In questo quadro qual è la vostra proposta? Che cosa dovrebbe avere o non avere una grande città come Genova per essere ancora competitiva?
“Io credo che il vecchio modello che era basato su un’industria pesante, che dava molto lavoro, che faceva arrivare a Genova tanti lavoratori anche da fuori, che produceva ricchezza, era un modello che andava difeso e non smantellato, come è stato fatto negli ultimi 30 anni.
I dati dell’emigrazione parlano chiaro, centinaia di migliaia di persone sono andate via, che probabilmente non hanno più trovato condizioni economiche per restare o perché questa città non è riuscita più a offrire opportunità di riscatto a gente che prima veniva qui convinta di poter creare una nuova vita, di poter realizzare legittime aspettative. Io ho l’impressione che il nostro modello economico si sia ripiegato, abbia deciso di puntare sul soddisfacimento di bisogni più elitari a vantaggio di categorie più ristrette. Questo ha provocato una grande frattura sociale che è accompagnata dalla fine del ruolo dello Stato nell’economia.
Abbiamo pensato che delegare tutto al mercato significasse entrare nella modernità. Abbiamo immaginato che la fine del ruolo della politica nel gestire i conflitti sociali e nell’indirizzare un’idea di economia buona per tutti fosse un retaggio del Novecento. e ci accorriamo adesso invece che lasciare tutto nelle mani del libero mercato significa deindustrializzazione, significa migrazione giovenile, significa fine delle opportunità per tutti, significa anche costruzione di un modello sociale che è basato sulla forza, sull’arbitrio del denaro, poche categorie che riescono mantenere posizioni di privilegio economico, dettano legge su tutto il resto e gli altri si arranciano, è un modello molto gerarchizzato ed è un modello che va affrontato, va destrutturato dalle fondamenta”.
Come farlo?
“La prima cosa da fare è restituire dignità al pubblico, restituire dignità alle istituzioni e consentire alle istituzioni di indirizzare, invertire, controllare i processi di sviluppo economico anche cittadino e finirla con una certa retorica che bolla qualsiasi burocrazia comunale come se fosse parassitaria e il risultato di una casta autoreferenziale, finirla di pensare che lo Stato che diventa prestatore di lavoro di ultima istanza è per forza clientelare, quando in realtà magari sta cercando soltanto di dare respiro, ristoro a categorie che il mercato rifiuta. La prima cosa da fare è invertire il discorso prevalente, cambiare i paradigmi prevalenti che sono improntati a un neoliberalismo spinto che ci ha portato dentro un mondo selvaggio”.