Come l’arte può raccontare il conflitto. Una importante mostra alla Fondazione Merz di Torino 

La mostra collettiva curata da Claudia Gioia e Beatrice Merz, disposta molto bene negli spazi della Fondazione Merz di Torino, fa il punto sul tema in assoluto più attuale e bruciante: il rapporto tra arte/cultura e guerra.  

La mostra Push the Limits alla Fondazione Merz 

E lo fa a partire proprio da una frase di Mario Merz: “la cultura si sveste e fa apparire la guerra”. La riflessione si concentra dunque su quei momenti storici, come quello che stiamo vivendo, in cui le apparenze, i veli, gli orpelli vengono meno ed emerge la struttura cruda e brutale del conflitto geopolitico, sociale, quindi culturale; ma si riferisce anche al momento in cui l’arte stessa reagisce ad una situazione di questo tipo, svestendosi dell’aspetto più conciliante e mettendo a nudo la propria “natura combattiva”. Come scrivono infatti le curatrici, “qui sottolineiamo anche la libertà e la responsabilità dell’arte e della cultura, così come all’obiettivo di forzare i limiti, rifiutando la rassegnazione all’immobilità, proprio oggi che tutti i principi della convivenza e del diritto vengono stravolti, perché possano venire nuove parole per ricominciare a pensare in termini di giustizia e di relazioni internazionali, sociali e civili”. 

Push the Limits 2, Fondazione Merz, Torino, 2025, exhibition view
Push the Limits 2, Fondazione Merz, Torino, 2025, exhibition view

Le opere in mostra a Torino 

Le artiste in mostre raccolgono questa sfida con opere ovviamente molto varie dal punto di vista dei media, dei linguaggi e degli approcci (l’installazione fa da padrona insieme al video). Si incontra dunque il Metapanorama I, II, III (2023) di Dominque Gonzalez-Foerster, grande stampa digitale che si ispira alla pittura murale messicana di Rivera & co. così come ai diorami ottocenteschi, esempio di narrazione figurativa contemporanea che oppone alla paura diffusa la protesta e l’attivismo. Molto interessante il video The Fear of Leaving the Animal Forever Forgotten Under the Ground (2021) dell’olandese Janis Rafa, soggettiva di un cane intrappolato insieme al branco in un claustrofobico labirinto sotterraneo, che in maniera non retorica riesce a catturare l’ansia di questo tempo. 

Le artiste in mostra a Torino

Sull’archivio e sulla mescolanza tra attitudine documentaristica e fiction lavora invece yasmine eid-sabbagh/Rozenn Quéré con Possible and Imaginary Lives (2012-14), in cui ricostruisce attraverso fotografie e suono l’esistenza di quattro sorelle nate in Palestina e vissute in esilio a Beirut, al Cairo, a New York e a Parigi nel ricordo di Haifa e Ramallah.  Le italiane Rossella Biscotti e Monica Bonvicini sono presenti rispettivamente con lavori che si relazionano in maniera differente con il potere, la gerarchia e l’autoritarismo: Le Teste in Oggetto (2015) e due sculture della serie Chainswing (2024).  Uno dei lavori più complessi e al tempo stesso più coinvolgenti è Sour Things: the Pantry (2024) di Mirna Bamieh. L’artista, prima di abbandonare Ramallah dopo l’inizio dei bombardamenti, ha svuotato la sua dispensa: l’installazione, che comprende ceramiche, disegni, wallpaper, video e barattoli di vetro, è il tentativo di salvare dalla distruzione uno spazio e un tempo quotidiano, domestico, intimo, attraverso la memoria e la creazione. 

La funzione dell’arte nell’era del conflitto 

L’ultima opera, proiettata nello spazio sotterraneo, già da sola vale probabilmente la visita dell’intera mostra: si tratta di Pranayama Organ (2021) di Fiona Banner aka The Vanity Press. Nel breve film due aerei da combattimento (un Typhoon e un Falcon) si gonfiano e iniziano una danza che si muove a sua volta tra gli opposti del conflitto e della sensualità, dell’attrazione e della repulsione, della relazione e dell’annientamento, della morte e della vita. Il conflitto, a cui assistiamo sdraiati sui morbidi pouf che sono parte integrante dell’opera, sembra tanto più inevitabile proprio perché ambiguamente ‘confortevole’ – e i due caccia divengono così la perfetta metafora di questa epoca. 
Le riflessioni che questa mostra innesca hanno a che fare con il ruolo e la funzione dell’arte in tempi oscuri, governati dalla tecnologia, dalla minaccia dell’esclusione, dalla paura e dalla violenza: come può la cultura non solo resistere, ma offrire delle risposte? Come può, meglio, costituire essa stessa un’alternativa? L’invito che apparentemente ci rivolgono, in modi diversi, queste opere consiste evidentemente nel ripensare la disposizione ‘decorativa’ di molta arte contemporanea degli ultimi decenni, e nel rimettere al centro il potenziale trasformativo radicale dell’arte e dell’opera d’arte.

Christian Caliandro 

Libri consigliati:
(Grazie all'affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti)

[artribune_eventi]

L’articolo "Come l’arte può raccontare il conflitto. Una importante mostra alla Fondazione Merz di Torino " è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

Potrebbero anche piacerti