Cile, 52 anni dopo il golpe che rovesciò Allende resta un nodo irrisolto
- Postato il 11 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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L’11 settembre 1973 il Cile entrava in una delle pagine più oscure e drammatiche della sua storia. All’alba di quel giorno i carri armati erano già nelle strade di Santiago e i caccia Hawker Hunter sorvolavano il cielo, pronti a bombardare il palazzo presidenziale della Moneda. Al suo interno, Salvador Allende, primo presidente marxista eletto democraticamente al mondo, resisteva con le armi in pugno e con le parole del suo ultimo discorso, trasmesso da radio Magallanes, che ancora oggi riecheggiano come una lezione di dignità e coraggio.
Poco dopo, Allende sceglieva di togliersi la vita per non cadere prigioniero. La sua morte segnava l’inizio della dittatura militare di Augusto Pinochet, un regime che sarebbe durato fino al 1990 e che avrebbe lasciato dietro di sé migliaia di morti, desaparecidos, esiliati e un intero Paese ferito.
Cinquantadue anni dopo, il golpe cileno rimane un nodo irrisolto, non solo per la memoria collettiva del Paese ma anche per la politica contemporanea. A destra, in particolare, non mancano i tentativi di relativizzare, sfumare o persino tacere gli eventi di quell’11 settembre, quasi a voler cancellare il ricordo delle responsabilità delle Forze Armate e dei Carabineros. La storia però non si cancella per decreto né per convenienza elettorale e le sue lezioni rimangono vive e tornano a chiedere ascolto, soprattutto quando la tentazione di passare pagina, senza fare giustizia, si fa più forte.
Per comprendere le radici di quel colpo di Stato bisogna guardare al contesto internazionale. Erano anni di Guerra Fredda e l’elezione di Allende nel 1970 aveva scosso Washington, visto che per gli Stati Uniti un presidente socialista al governo di un Paese sudamericano rappresentava una minaccia strategica, un precedente pericoloso che si aggiungeva alla “questione Cuba”. La Casa Bianca e la Cia non rimasero a guardare: campagne di destabilizzazione economica, boicottaggi orchestrati da grandi multinazionali, pressioni sul credito internazionale furono parte di una strategia volta a isolare e logorare il governo dell’Unidad Popular. Intanto, all’interno, la società cilena viveva una polarizzazione sempre più marcata, con scioperi, scarsità di beni e una tensione politica che sfociò nel cosiddetto Tanquetazo, un tentativo di golpe militare fallito già nel giugno 1973 che prefigurò il peggio.
Il mattino dell’11 settembre dello stesso anno, quando i militari bombardarono la Moneda, non si consumava soltanto la caduta di un governo. Si apriva una ferita destinata a segnare la società cilena per decenni. La dittatura instaurata da Pinochet portò alla sospensione delle libertà fondamentali, alla persecuzione degli oppositori, a torture sistematiche e sparizioni forzate: secondo i rapporti ufficiali, oltre 40.000 persone furono vittime di violazioni dei diritti umani. Ma il golpe non cancellò solo vite e speranze, ridisegnò anche l’assetto economico del Paese con l’arrivo dei “Chicago Boys”. Giovani economisti formati negli Stati Uniti, che imposero un modello neoliberista radicale, fondato sulla privatizzazione e sulla riduzione dello Stato, che ancora oggi influenza l’economia e alimenta le disuguaglianze sociali in Cile.
In quel contesto, migliaia di cileni e cilene furono costrette a lasciare il Paese. L’Italia, non a caso, divenne una delle mete principali di quell’esilio: i legami storici tra i due Paesi, la presenza di una comunità italiana in Cile e la tradizione di solidarietà del movimento politico e sindacale italiano aprirono le porte a un’accoglienza che si rivelò fondamentale. Artisti, intellettuali e militanti trovarono rifugio a Roma, Bologna, Milano e tra loro, il gruppo musicale Inti-Illimani, che si stabilì in Italia (fino al 1988) e divenne simbolo della resistenza culturale cilena, portando canzoni e speranza nei teatri e nelle piazze d’Europa.
L’Italia non offrì solo protezione ma trasformò l’esilio in una piattaforma di denuncia internazionale contro la dittatura e di mobilitazione a favore del ritorno della democrazia. Oggi la memoria del golpe vive ancora in tutte le forme d’arte, ricordando tra gli altri Víctor Jara, cantautore ucciso nei giorni successivi al colpo di Stato, divenuto simbolo di resistenza. Isabel Allende (pronipote del presidente Allende), in La casa degli spiriti, e il compianto Luis Sepúlveda nei suoi racconti hanno narrato ferite, esilio e lotta politica e anche il cinema, con film come Machuca di Andrés Wood, ha trasmesso alle nuove generazioni la violenza e le contraddizioni di quegli anni.
Ricordare il golpe del 1973 significa dunque anche riconoscere la capacità dell’arte di custodire la memoria e trasmetterla oltre i confini e le generazioni. Significa ribadire che la democrazia non è mai un fatto compiuto, ma una conquista fragile, che può essere messa in discussione da chi alimenta odio, paura e manipolazione. Cinquantadue anni dopo, la lezione cilena resta più attuale che mai e ci insegna che il silenzio e la rimozione non proteggono la democrazia, ma la indeboliscono. Perché, come ricordava Allende nelle sue ultime parole, “la storia è nostra e la fanno i popoli”.
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