Bergamo, il neo-presidente del Tribunale ha i parenti avvocati in città: il caso divide il Csm, ma la nomina passa comunque

  • Postato il 18 settembre 2025
  • Giustizia
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Può un magistrato andare a dirigere l’ufficio giudiziario della città in cui il fratello, la cognata e la figlia esercitano la professione di avvocato? La questione ha occupato quasi un’ora di dibattito nell’ultima seduta del Consiglio superiore della magistratura, chiamato a scegliere il nuovo presidente del Tribunale di Bergamo. Il candidato era in realtà uno solo, proposto all’unanimità dalla Commissione per gli incarichi direttivi: l’attuale reggente Vito Di Vita, presidente vicario e capo della sezione gip/gup, ritenuto più titolato dello sfidante Roberto Spanò, giudice del Tribunale di Brescia titolare di importantissimi processi (tra cui quello sulla strage di piazza della Loggia). Di Vita è stato nominato a maggioranza dal plenum, ma nella delibera approvata – tra un elogio e l’altro alle sue qualità professionali – mancava ogni accenno all’elefante nella stanza: il suo rapporto di stretta parentela con gli avvocati dello studio Di Vita-Lenzini, nota boutique legale bergamasca con sede in via Garibaldi, a due passi dal palazzo di giustizia. Nello studio, specializzato in diritto civile e amministrativo, lavorano infatti quasi solo familiari del magistrato: in primis il fratello minore Antonio Di Vita e la cognata (moglie di lui) Elena Lenzini, ma anche la sorella di quest’ultima Claudia Lenzini (assessora alla Casa del Comune di Bergamo), nonché la figlia del giudice, Francesca Di Vita, e un altro giovane avvocato presumibilmente suo parente, Michele Di Vita. Infine, anche un altro figlio del neo-presidente, Federico, risulta iscritto all’albo degli avvocati di Bergamo, pur non facendo parte dello studio.

La questione finora non si è mai posta perché Vito Di Vita ha sempre esercitato le funzioni nel settore penale, a differenza dei parenti, che si occupavano di civile e amministrativo. La nomina a presidente del Tribunale, però, cambia tutto: d’ora in poi il magistrato potrebbe esercitare un’influenza indiretta anche sui procedimenti in cui sono parte i familiari, tramite i propri poteri amministrativi e gestionali. Per questo, presentando la sua candidatura, Di Vita aveva messo le mani avanti, inviando al Csm una comunicazione in cui dichiarava che il fratello Antonio e la figlia Francesca operano “quasi esclusivamente nel settore amministrativo“, di competenza quindi del Tar, e “solo sporadicamente in quello civile connesso al settore amministrativo”, assegnato invece al Tribunale ordinario. Aggiungeva poi che l’altro figlio, Federico, esercita “esclusivamente nel settore sportivo“, senza però spendere alcuna parola sulle attività della cognata Elena, della di lei sorella Claudia e del non meglio identificato Michele Di Vita. Proponendo la nomina di Di Vita, la Commissione ha scelto di non affrontare la questione, rinviando la verifica dell’eventuale incompatibilità a un momento successivo all’assunzione delle funzioni, sulla base della situazione concreta.

Nel frattempo però la questione di opportunità, difficile da ignorare, ha innescato un ampio dibattito tra magistrati e avvocati a Bergamo e in Lombardia. Così, come accade spesso, a porre la scomoda questione in plenum è stato il consigliere togato indipendente Andrea Mirenda, che ha esordito parlando di un “caso delicatissimo e davvero raro per come si presenta”. Dalla home page del sito Internet, ha sottolineato, risulta che lo studio Di Vita-Lenzini si occupa “anche di diritto civile, e precisamente “assistenza legale giudiziale e stragiudiziale in favore di privati, aziende ed enti pubblici nei settori famiglia, lavoro, contrattualistica, recupero crediti, risarcimento danni“. Andrebbe quindi chiarito”, ha incalzato, “cosa significhi quanto si legge nella dichiarazione del collega” in merito all’impegno solo “sporadico” del fratello e della figlia nel civile. A questo scopo Mirenda ha chiesto un ritorno in commissione della pratica, per accertare quante fossero le cause pendenti presso il Tribunale di Bergamo riferibili allo studio ed evitare così una nomina definita “traballante”, in base al principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione. “La magistratura ha un ruolo altissimo e il suo prestigio passa, più di ogni altra cosa, nel suo rappresentarsi alla società civile come davvero super partes, nella forma e nella sostanza. Bergamo non è Roma, è una piccola città dove il rischio di appannamento della funzione giudiziaria è all’ennesima potenza e sempre dietro l’angolo”.

Alla richiesta di approfondimento si è associato l’altro togato indipendente eletto al Csm, il pm di Milano Roberto Fontana, che ha fornito anche un dato di massima sul potenziale conflitto d’interessi: mettendo insieme gli avvocati dello studio, ha affermato, “mi risultano informalmente iscritte a ruolo circa 800 cause” di fronte al Tribunale di Bergamo. “Non mi risulta che in Italia vi siano presidenti dei tribunali di città medie o medio-piccole che abbiano parenti avvocati con un’attività professionale avviata da decenni”, ha notato. La scelta, ha avvertito quindi, “rappresenta un precedente a livello nazionale: se imbocchiamo questa via a Bergamo, poi la dovremo seguire da Bolzano fino a Marsala”. Argomentazioni che però non hanno convinto gli altri consiglieri: la richiesta di ritorno in Commissione è stata respinta con soli due voti a favore, 24 contrari e cinque astenuti, mentre la nomina di Di Vita è passata con quattro astensioni (oltre a Fontana e Mirenda, il consigliere laico in quota M5s Michele Papa e il primo presidente della Cassazione Pasquale D’Ascola, membro di diritto del Consiglio).

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Il Fatto Quotidiano

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