Bartolomé de las Casas, il pane e l’assassino: storia di un conquistatore pentito

  • Postato il 18 ottobre 2025
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Su questo blog troverete un Atlante morale, una serie di ritratti letterari dedicata a figure che, con la loro vita e il loro pensiero, hanno reso l’umanità più consapevole e compassionevole. Non biografie ma esplorazioni spirituali e poetiche, capaci di svelare le contraddizioni e la forza etica di chi ha aperto nuove vie dell’essere. Ogni testo diventa un atlante interiore con cui ho l’ambizione di guidarvi verso il perfezionamento dell’animo umano.

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“Il pane dei bisognosi è la vita dei poveri, chi lo nega è un assassino”.
Ha letto migliaia di volte quella frase, nel Siracide, prima di capire che fosse rivolta a lui.
Mille volte. Con una voce da prete, con l’ostia in mano. Con gli indigeni piegati in quei campi che erano i suoi: li contava, come si contano le pecore, li faceva lavorare fino allo sfinimento, li vedeva crollare e pensava: sono bestie deboli, da domare.

Lui non vedeva nulla: né i bambini che morivano senza nome, né le donne che venivano violate come una terra da arare. Non vedeva che la sua civiltà era fatta di ossa rotte e villaggi bruciati. Quando ha iniziato a guardare non ha potuto più smettere.

Ha iniziato ad attraversare l’Atlantico per denunciare lo sterminio delle popolazioni americane, e ogni volta che tornava urlava contro i conquistadores macellai, contro i coloni che lo volevano morto, contro l’impero che giustificava ogni sterminio con la parola “missione”.

Bartolomé de las Casas aveva tradito la sua razza, la sua classe, il suo privilegio; perché lui conosceva la violenza dall’interno: l’aveva praticata e ci stava costruendo sopra la sua vita.
Era uno degli assassini, di quelli con la frusta. Uno che aveva visto morire.
In ciò stava la sua forza scandalosa: non predicare da un pulpito di innocenza perché lui era stato al centro della complicità. Non avere la delicatezza di un missionario, perché aveva scritto pagine di sangue, con numeri, nomi, metodi di tortura, con descrizioni così precise da far tremare le mani: trecentomila morti qui, cinquantamila là, bambini squartati, donne stuprate, vecchi diventati inutili e arsi vivi.

Non scriveva metafore, ma pezzi di carne.
Gli dicevano che i selvaggi andavano civilizzati, che non avevano un’anima, che erano inferiori. E lui ha iniziato a rispondere. “Tutte le nazioni del mondo sono uomini”. Lo ha fatto contro l’Impero. Poi ha preso l’universalismo cristiano, che diceva “Siamo tutti figli di Dio” ma sterminava in nome di quel Dio, e lo ha scagliato contro le fortezze coloniali. Se anche loro sono figli di Dio, ucciderli è deicidio; se hanno ragione, schiavizzarli è una bestemmia: tutto quello che stiamo facendo contro di loro è un crimine. Ripeteva.

La conversione di Las Casas è stata una lacerazione, ha significato ammettere di aver vissuto dalla parte sbagliata, di aver creduto normale ciò che era abominio. Non c’è stata redenzione ma soltanto il riconoscimento brutale della propria colpa. Lui ha scelto di diventare un traditore, per rompere il patto che lo teneva legato all’oppressione, per rompere i ranghi.
Questo lo ha reso intollerabile.

La sua conversione portava in sé una contraddizione, una macchia che mai si è lavata. Quando ancora credeva che il male fosse negoziabile, suggerì di sostituire gli indigeni con schiavi africani. E questa non è stata ingenuità, ma il residuo dell’idea che alcune vite fossero di diverso valore, che potevano essere usate. Non ha mai potuto cancellare quell’orrore: ha ritrattato, scritto pagine di pentimento. Quell’errore gli ha mostrato che la conversione non è mai completa, che la coscienza morale non è uno stato raggiunto ma un processo instabile.

La conversione etica non ha fine. Non esiste il momento in cui si può dire “sono a posto, sono dalla parte giusta”, perché il male non abbandona mai del tutto, rimane una tentazione permanente, una logica che rimarca che qualche brutalità è necessaria, che qualche prepotenza è inevitabile, che qualcuno può essere sacrificato per il bene di un altro.

Il lascito di Las Casas è che l’evoluzione morale dell’umanità non passa attraverso concetti astratti o sistemi filosofici, ma attraverso individui che accettano di lacerarsi, di perdere tutto, di vivere nella contraddizione e nella colpa, di trovare nel tradimento l’unica forma di fedeltà.

Las Casas ha dimostrato che la coscienza morale non è conforto, è tormento.
Lui non ha mai trovato pace.

Bartolomé de las Casas (Siviglia, 1484 – Madrid, 1566). Conquistatore, encomendero, poi domenicano e vescovo di Chiapas. Nel 1514, dopo anni come proprietario di schiavi indigeni a Cuba, abbandona tutto e inizia una battaglia di cinquant’anni contro il sistema coloniale spagnolo. Scrive la Brevísima relación de la destrucción de las Indias (1552), testimonianza violenta e dettagliata del genocidio.

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Il Fatto Quotidiano

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