“Abbiamo promesso di non mangiarci a vicenda, siamo sopravvissuti bevendo sangue di tartaruga. È un miracolo che siamo qui a raccontarlo”: la storia della famiglia rimasta 37 giorni alla deriva nel Pacifico
- Postato il 8 novembre 2025
- World News
- Di Il Fatto Quotidiano
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“Fino ad oggi, non so davvero come siamo sopravvissuti. Ogni notte guardavamo il sole tramontare e ci chiedevamo se saremmo stati ancora lì per vederlo sorgere al mattino. Non sapevamo mai se avremmo superato la notte”. A parlare è Douglas Robertson, oggi 71enne, un contabile di Londra. Ma nel 1972 era un ragazzo di 18 anni che, insieme alla sua famiglia, ha vissuto una delle più straordinarie storie di sopravvivenza in mare mai documentate. Per 37 giorni, lui, la famiglia e altri cinque membri dell’equipaggio rimasero alla deriva nell’Oceano Pacifico, combattendo la fame, la sete, gli squali e la disperazione.
Una storia incredibile che oggi, a più di 50 anni di distanza, viene narrata in un podcast in cui i fratelli Robertson raccontano quell’avventura iniziata una mattina di giugno del 1972. La famiglia Robertson – il padre Dougal, ex capitano di mare, la madre Linda, infermiera, Douglas (18), la sorella Anne, i gemelli di 11 anni Neil e Sandy – e un autostoppista, Robin Williams (23), stavano navigando da 18 mesi intorno al mondo sulla loro goletta di legno, la Lucette. “Mio padre ha deciso che eravamo degli idioti ignoranti che avevano bisogno di un’istruzione all’università della vita, anche se quella era solo una storia inventata per giustificare la sua voglia di viaggiare”, racconta.
All’improvviso, a 200 miglia dalle Galapagos, Douglas sentì una serie di “colpi devastanti” contro lo scafo. Erano state tre orche assassine: “Una con la testa spaccata, il sangue che colava in acqua. Ho messo la testa nel boccaporto, papà era già con l’acqua alle caviglie”, ricorda Douglas. Pochi istanti dopo, il padre urlò: “Abbandonare la nave!“. Douglas rispose: “E dove? Non siamo a Miami! Siamo nel mezzo del Pacifico!”. Ebbero solo pochi secondi. Si lanciarono su una zattera di gomma e riuscirono a salvare il piccolo dinghy (una barchetta in vetroresina) che avevano a bordo, l’Ednamair. Si ritrovarono alla deriva con provviste per tre giorni, acqua per dieci e nessun dispositivo di navigazione. Nessuno sapeva che fossero dispersi.
“Il tuo unico obiettivo ogni singolo giorno è solo restare vivo”, riflette oggi Douglas. “Una cosa del genere ti plasma. Mi ha reso impavido. Quando la gente dice: ‘Non possiamo farlo’, io penso sempre: ‘Perché no?'”. La sopravvivenza fu un incubo metodico. Dougal, il padre, decise di dirigersi a nord verso le “calme acque equatoriali”, sperando di trovare pioggia per l’acqua potabile. Il sesto giorno, le razioni finirono e una nave li ignorò, nonostante un razzo di segnalazione: “Quello fu un momento di pura disperazione”, ricorda Douglas. “Papà disse che dovevamo salvarci da soli e ci fece promettere che non ci saremmo mangiati a vicenda”.
La zattera iniziò a perdere aria e, al 17° giorno, si disintegrò, costringendo i sei naufraghi a stiparsi nell’inadeguato dinghy di 2,7 metri: “Eravamo così vicini all’acqua che potevamo vedere i pesci nuotare sotto di noi. Gli squali ci seguivano“. Sopravvissero catturando pesci volanti e tartarughe, bevendone il sangue per idratarsi. Impararono che i bulbi oculari dei pesci Dorado contenevano acqua dolce e iniziarono a succhiarli interi: “La sete era orrenda”, ricorda. Il sale marino ricopriva i loro corpi di piaghe e bolle: “La paura era costante”, aggiunge. “Potevi parcheggiarla per un po’, ma al minimo calo di guardia, ti inondava. Questo era il nostro mondo ora, e potevi morire sull’onda successiva. Ma non potevi pensare di morire, dovevi pensare al compito successivo: svuotare la barca, prendere un pesce, superare un’altra ora”.
Dopo 37 giorni, quando i gemelli erano ormai pericolosamente deboli, avvenne il miracolo. Una nave apparve all’orizzonte: la Toka Maru II, un peschereccio giapponese. Dougal sparò l’ultimo razzo: “Ci fu un fischio prolungato, poi guardammo con il cuore in gola mentre la nave cambiava rotta”. Il salvataggio fu pericoloso, con gli squali che circondavano la barchetta mentre venivano issati a bordo, uno per uno. Erano emaciati, ma vivi. Erano sopravvissuti per 37 giorni e avevano percorso oltre 750 miglia.
L’arrivo a Panama fu un trionfo mediatico. Ma il ritorno alla normalità fu surreale: “Due mesi dopo essere naufragati, ero di nuovo a scuola”, ha ricordato il fratello Sandy. I genitori, il cui matrimonio era già teso, divorziarono entro un anno: “Penso che pesasse molto su di loro il fatto di averci messo in un simile rischio”, riflette Douglas. Oggi Douglas, che ha chiamato la sua primogenita Lucette in onore della barca perduta, non prova rabbia per il padre, la cui “sete di vagabondaggio” diede inizio a tutto. “Aveva le sue debolezze, ma era mio padre. E ogni giorno della mia vita lo ringrazio per quello che ha fatto, perché quello che abbiamo vissuto è stato fantastico. Per me, non c’è nulla da perdonare”.
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