A Prato moda calci e pugni. Basta promesse, serve una rivoluzione nella filiera
- Postato il 17 settembre 2025
- Blog
- Di Il Fatto Quotidiano
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Quella che sto per raccontare è una storia di calci e pugni. Martedì 16 settembre, durante uno sciopero pacifico, la titolare dell’azienda Alba Srl e altri individui hanno aggredito fisicamente i lavoratori, distruggendo il gazebo del presidio e mandando uno di loro in ospedale. Le immagini filmate sono scioccanti: uomini e donne rincorsi, insultati, picchiati. La Alba non è una fabbrica clandestina, ma uno stabilimento che confeziona abiti per le grandi firme della moda Made in Italy.
Il lusso è cucito con il sangue. Nel distretto tessile di Prato, cuore pulsante del pronto moda italiano, si consuma un dramma che non ha nulla di elegante.
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Alla Alba, fino a poco tempo fa, i 18 operai – bengalesi, pakistani, afghani – lavoravano 12 ore al giorno tutti i giorni, assunti con contratti “poveri” come il Multiservizi a 4 ore o poco più. Raccontano i lavoratori che, quando avevano bisogno di andare in bagno, erano poi costretti a recuperare il tempo perso a fine giornata, trattenendosi 20 minuti in più (ovviamente non pagati).
Tutto questo è cambiato quando hanno contattato il sindacato Sudd Cobas, che li ha aiutati a ottenere un regolare contratto di lavoro. Una storia finita bene? Tutt’altro, perché a quel punto l’azienda ha cominciato a non pagarli più regolarmente. Da febbraio, per ricevere lo stipendio, i dipendenti dovevano ogni volta chiamare il sindacato e scioperare.
Con l’arrivo dell’estate – denuncia Sudd Cobas – sono state aperte altre due aziende fittizie, una delle quali nelle mani dei responsabili dell’Alba, che hanno cominciato a spostare i macchinari dall’Alba all’altro capannone, distante poche centinaia di metri. Per la nuova Srl. sono stati reclutati ragazzi di Napoli di origine bengalese: portati a Prato, messi a vivere in appartamenti affittati dal caporale, privati delle sim dei telefoni e scortati ogni giorno dal lavoro a casa e ritorno, per impedire loro di incontrarsi e parlarsi con i 18 regolarizzati e sindacalizzati.
Ad agosto, al rientro dalle vacanze, gli operai della Alba hanno trovato solo 5 dei 18 macchinari che usavano: gli altri 13 erano stati spostati nell’altro capannone, dove si era svolta la stiratura. Ora, quindi, solo 5 dipendenti hanno ancora la possibilità di lavorare. L’obiettivo è chiaramente chiudere l’azienda, ma in realtà il lavoro va avanti da un’altra parte.
Ecco perché giovedì scorso è cominciato lo sciopero davanti alla fabbrica chiusa, per rivendicare il lavoro ma anche – spiegano – l’ultimo stipendio mai pagato, il TFR e tutte le spettanze dovute. Venerdì, il picchetto dei lavoratori ha impedito il passaggio di alcuni pantaloni che dovevano essere inviati a New York a una sfilata, da qui – probabilmente – la rabbia e la violenza della proprietaria che ha attaccato fisicamente gli scioperanti.
È una realtà che ho visto da vicino, visitando quelle boite accompagnato dai lavoratori che mi mostravano i luoghi e i segni del loro sfruttamento. Una situazione che ho denunciato tante volte, con interventi in aula, interrogazioni, articoli: l’azienda, costretta dalle proteste e dal sindacato ad assumere regolarmente, attua una delocalizzazione interna, con trasferimento di macchinari, apertura di una nuova società intestata a una responsabile e licenziamenti mascherati, lasciando i lavoratori appena regolarizzati senza stipendio, senza TFR, senza futuro.
Come dicevo e come ora tutti possono vedere con i propri occhi, queste storie non sono solo sindacali e di lotta. Sono storie di violenza, di caporalato, di neoschiavismo.
Storie di capi venduti a 1000 euro, cuciti per 2 euro all’ora. Di contratti part-time fittizi, straordinari non pagati, tredicesime da restituire. Storie diffuse in tutto il distretto pratese, in cui ci sono aziende nelle quali si superano le 80 ore settimanali. E quando si prova a scioperare, arrivano le spranghe: un anno fa, a Seano, cinque italiani aggredirono un presidio con bastoni, minacciando “la prossima volta vi spariamo”.
Storie di scatole cinesi: le aziende chiudono e riaprono con un altro nome, un’altra partita IVA, ma gli stessi padroni e le stesse regole del terrore. I controlli? Inefficaci. Le ispezioni? Eluse. Il sistema degli appalti e subappalti è una giungla dove i diritti vengono calpestati e la legalità è un optional. E tutto ciò accade sotto gli occhi dei grandi brand, che si riempiono la bocca di sostenibilità e responsabilità sociale.
E dei committenti, che forniscono a queste aziende lavoro a basso costo fingendo di non sapere che cosa ciò significa. Questa mattina, dopo la risonanza del video sulle violenze alla Alba, la committenza ha finalmente risposto ai Sudd Cobas promettendo un incontro. Ci aspettiamo che la promessa sia mantenuta.
I marchi non sono innocenti. Se i loro capi vengono cuciti in condizioni di schiavitù, sono complici. Finché si gireranno dall’altra parte, il far west del pronto moda non finirà mai. Ecco perché non bastano le promesse, ma serve una rivoluzione nella filiera. Servono certificazione obbligatoria della legalità lungo tutta la filiera, responsabilità diretta dei marchi committenti, sanzioni reali per chi sfrutta e aggredisce, protezione immediata per i lavoratori che denunciano.
Pretendiamo una tracciabilità della filiera sempre. Il GRS (Global Recycled Standard) – ovvero la certificazione internazionale che garantisce percentuale di tessuto riciclato, tracciabilità nelle fasi della filatura, tessitura, tintura, confezione, sostenibilità ambientale e responsabilità sociale – non deve essere aggirato.
Prato non può essere il laboratorio dello sfruttamento. Il Made in Italy non può essere sinonimo di sangue, paura e silenzio. Se i vestiti di lusso nascono dal dolore, allora è il sistema che va cambiato. E va cambiato ora.
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