A chi ci accusa di tacere su Gaza, dico: non accetteremo di essere processati in quanto ebrei

  • Postato il 4 luglio 2025
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di Alex Zarfati*

Ci accusano di silenzio. Ma il vero silenzio è quello del pensiero. E c’è un limite. Anche alla barbarie travestita da coscienza.

Nel suo ultimo blog su ilfattoquotidiano.it, Gianluca Ferrara – ex senatore M5S – ha superato quel limite. Lo ha fatto con la calma apparente di chi si crede nel giusto, ma lancia parole come pietre. E colpisce. Colpisce gli ebrei italiani, in particolare quelli di Roma, accusandoli di complicità nel genocidio perché non si uniscono al coro globalizzato dell’indignazione a comando.

Ci chiede di “uscire dal ghetto”. Ecco. Basterebbe questa frase per chiudere qui ogni discussione. Evocare il termine “ghetto” in un articolo sugli ebrei romani — che nel Ghetto ci hanno vissuto, pianto e resistito per secoli — non è una provocazione. È ignoranza travestita da cultura. Quella che si crede colta perché cita Dachau e Auschwitz senza conoscere una riga della storia ebraica italiana. Non conosce Isacco Artom, Samuele Romanin, Giuseppe Finzi, Giuseppe Levi – ebrei del Risorgimento, della Repubblica, della Resistenza. Non conosce la razzia del 16 ottobre 1943. Non conosce la comunità ebraica di Roma: la più antica d’Europa, la più radicata, la più orgogliosa.

C’è qualcosa di patologico, di rituale, nella richiesta ciclica che ci viene fatta: dissociatevi. Da Israele, dai suoi governi, dai suoi errori. Dissociatevi da chi porta il vostro stesso nome. Siate ebrei buoni. Addomesticati. E possibilmente discolpati. Ricorda qualcosa? Ricorda “Davide, discolpati”, il titolo di Rosellina Balbi nel 1982. E ricorda Bruno Zevi, dopo l’attentato alla sinagoga, quando ebbe il coraggio di dire: “Nessuno ci chieda di distinguerci dal popolo di Israele. […] Noi apparteniamo al popolo di Israele che comprende le comunità disperse in ogni parte del mondo, a cominciare dalla più antica, quella di Roma.”

E oggi? Siamo di nuovo chiamati a rispondere non delle nostre azioni, ma del nostro essere. Di nuovo bersaglio di un linciaggio morale travestito da giustizia. Un appello che equivale a una fatwa. Non è riflessione: è una chiamata alla scomunica. Un’esortazione a isolare chi non si allinea. A marchiarlo. E quando si indica un gruppo come silenzioso, e quindi complice, e lo si esorta a “uscire dal ghetto”, si traccia un bersaglio. E la storia ci ha già insegnato cosa succede quando quel bersaglio diventa collettivo.

Ferrara ci accusa di silenzio. Ma non ascolta. Parla di genocidio senza spiegarlo, cita l’Onu come fonte indiscutibile ma ignora ogni report che smonta la narrazione di Hamas. Si commuove per Gaza, ma tace sul 7 ottobre, sugli ostaggi, sulle famiglie israeliane bruciate vive. Una pietà selettiva, che cerca un capro espiatorio, non la verità. Finge di criticare Netanyahu, ma non ha una parola per gli stupri, le torture, i missili lanciati dagli ospedali. Finge di onorare la Shoah, ma la usa come clava per accusare noi — proprio noi, discendenti dei deportati — di complicità con crimini mai provati.

Finge di parlare di politica. In realtà, ci sta processando per identità.

E questo processo è un rituale macabro, antico, viscerale: l’ebreo irriso, esposto, gettato in pasto ai livorosi con le bave alla bocca e gli occhi iniettati di sangue, educati all’antisionismo dalle pagine del giornale. Perché ne facciano scempio, con piacere accresciuto dal fatto che la vittima è ebrea. Non è indignazione. È godimento. Non è giustizia. È lapidazione.

No, Ferrara. Non ci discolperemo. Non accetteremo di essere processati in quanto ebrei. Non abbiamo bisogno del tuo permesso per essere liberi. Non usciamo “dal ghetto” perché non ci siamo mai più rientrati. Non marceremo con chi brandisce paragoni tra Israele e Hitler, con chi inneggia a chi ha sgozzato, bruciato, violentato. Non accetteremo che la vera identità ebraica sia solo quella che si oppone a Israele. O a se stessa.

E diciamolo chiaramente: non merita nemmeno di sapere cosa proviamo. Non merita di sapere se e come partecipiamo al dolore delle morti palestinesi, in una guerra che Israele non ha voluto, ma che ha dovuto affrontare dopo un massacro. Ciò che proviamo è nostro. Appartiene alla nostra etica. Quella ebraica. Che ci impone di piangere ogni vita spezzata, di odiare la guerra, di amare la vita. Ma anche di non ostentarla.

Siamo il popolo che ha pianto i suoi morti in silenzio, come Stefano Gaj Taché, ucciso da un commando palestinese a Roma, mentre il mondo si voltava dall’altra parte. E come non abbiamo mai chiesto a nessuno di condividere il nostro lutto, così nessuno si senta autorizzato a chiederci come viviamo quello degli altri.

Chi ci conosce sa il nostro amore per la vita. Ma conosce anche la nostra riservatezza. Quella che ci impedisce di trasformare i morti in spot. Quella che ci fa soccombere mediaticamente davanti a chi esibisce i corpi dei propri figli come arma di comunicazione di massa. Noi, invece, mostriamo lo stesso pudore per i nostri sentimenti, qualunque sia la direzione del dolore. Anche quello che — nostro malgrado — siamo a volte costretti a infliggere.

Noi siamo gli ebrei di Roma.
Abbiamo resistito a Tito, a Paolo IV Carafa, all’umiliazione sadica del carnevale, a Pio IX, a Mussolini, ai nazisti, ai terroristi arabi, ai giornalisti troppo convinti della propria innocenza.

Siamo ancora qui.
E nessuno ha il diritto di esporci al pubblico ludibrio per come scegliamo di vivere, pensare o custodire il nostro dolore.
Con la testa alta, con la nostra storia addosso, con la nostra voce intatta.
E non dobbiamo discolparci di nulla.

* Ebreo romano. Figlio della Storia.
E non del vostro bisogno di assolvervi a nostre spese.

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Il Fatto Quotidiano

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