A Bologna c’è in mostra la grande fotografa di teatro e musica Silvia Lelli. L’intervista
- Postato il 24 agosto 2025
- Arti Visive
- Di Artribune
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Ho conosciuto Silvia Lelli e Roberto Masotti – due grandi esponenti della fotografia e delle arti performative – oltre venti anni fa. Sin dall’inizio della nostra frequentazione sono rimasta colpita dalla conoscenza che entrambi avevano del mondo della musica. Nel corso degli anni, avevano conosciuto il meglio della musica colta, jazz e non solo. Abbiamo realizzato insieme un libro sui teatri e con Roberto, che alcuni anni fa ci ha lasciati, ho lavorato a una mostra su Arvo Pärt a Studio La Città di Verona con Hélène de Franchis. Un’esperienza straordinaria che mi ha segnato nel profondo. Oggi al Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna viene dedicata una mostra a questo duo, diventato tale nel 1979 in occasione della collaborazione con il Teatro alla Scala di Milano, di cui sono stati fotografi ufficiali sino al 1996, per 17 anni. Silvia Lelli ha curato personalmente la mostra Musiche, insieme a Riccardo Negrelli, e l’ha dedicata al suo Roberto. Una parte delle immagini è stata collocata all’interno del percorso museale con un interessante allestimento immersivo.

Intervista a Silvia Lelli in occasione della mostra al Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna
Il corpo è protagonista delle vostre immagini. Memorabili i ritratti a Leonard Bernstein, Keith Harrett, Demetrio Stratos, Astor Piazzolla, Riccardo Muti, Claudio Abbado, Arvo Part, ma anche Franco Battiato. Vogliamo parlare dell’attenzione che avete avuto nel corso degli anni nei confronti della performance?
Sin dagli Anni ’70 abbiamo avuto entrambi grande attenzione e curiosità per il mondo della performance. Seguivamo avvenimenti che spesso avvenivano in spazi non deputati all’azione scenica, come le gallerie d’arte per esempio. Ricordo la galleria di Salvatore Ala e una performance di Lucinda Childs o il gruppo Fluxus con Juan Hidalgo e Walter Marchetti al primo negozio Fiorucci. Sentivamo l’urgenza di esserci e vivere queste azioni sceniche che sollecitavano tutti i sensi, nella loro incredibile varietà. Tutto quello che poteva apparire casuale era invece più che mai collegato da una serie di connessioni più o meno evidenti, a volte sotterranee ma non per questo meno forti. Ci siamo sempre sentiti autori fotografi prestati alla musica e, più in generale alle arti performative. Ognuno seguiva i suoi filoni ma li intrecciava con altri e i percorsi, per come le cose accadevano, risultavano spesso già contaminati. L’attualità si chiamava ancora avanguardia e spesso viaggiavamo all’estero per inseguire le nostre suggestioni.
Le storie a cui avete dato vita sono oggi parte della musica contemporanea. Puoi raccontarci qualche aneddoto?
Molte sono le storie che s’intrecciano lungo uno stesso percorso e che appartengono a una stessa storia professionale e culturale, oltreché essere vita comune. Ricordo quando si presentò un’occasione irrinunciabile, veniva rappresentata al Teatro la Fenice di Venezia un’opera di Bob Wilson Einstein on the Beach con musiche di Philip Glass. Regista e compositore erano a noi già noti, ma speravamo d’incrociarli nuovamente. Partimmo senza appuntamento alcuno. Roberto riuscì, incrociando Philip Glass fuori dal teatro, a fissare un incontro per un ritratto. Glass si presentò con i suoi due bambini e Roberto con il tavolino, la foto con i due figli appollaiati sul tavolino fu scattata in piazza S.Marco. Quell’immagine avrebbe, poi, fatto parte del noto progetto di Masotti, You tourned the table on me. Contemporaneamente io tentavo senza alcun permesso di entrare al Teatro la Fenice, l’occasione si presentò con l’arrivo degli artisti in teatro, mi accodai alle signore del coro e mi piazzai spudoratamente in prima fila pronta a fotografare lo spettacolo. Wilson, già noto, allora come persona intransigente, non proferì parola. Abituato all’organizzazione americana sicuramente pensò che avessi il permesso del Teatro.
Che cosa ricordi di quel momento?
Lo spettacolo fu per me folgorante, rappresentava un’idea di teatro-immagine, di opera d’arte totale, raccontarlo per immagini era complesso, per la simultaneità di azioni, suoni e per l’uso rivoluzionario della luce, che costituiva un elemento scenografico e drammaturgico fondamentale. Fotografare Einstein on the Beach rappresentava una grande sfida che metteva in gioco tutto ciò che avevo imparato, pensato o anche solo sognato e immaginato fino ad allora.






La fotografia teatrale secondo Silvia Lelli
All’interno del vostro cammino, in ambito musicale uno dei più interessanti della scena internazionale, è stata fondamentale la didattica. In particolare tu, Silvia, hai dedicato molto tempo e molte energie all’insegnamento della fotografia teatrale in chiave musicale. Quanto è cambiato questo ambito nel corso del tempo?
Penso che il passaggio dall’analogico al digitale sia stato cruciale in tutta la fotografia, indipendentemente dagli ambiti, dai generi. Questo nel bene: possibilità tecniche prima inimmaginabili soprattutto per chi deve combattere con la luce o meglio con la sua scarsità e nel male, derivante da una eccessiva ‘facilità’, dove il ‘gratuito’ diventa sia letterale che estetico e può condurre allo spreco, alla banalità, all’effetto fine a se stesso, magari per un utilizzo e quindi un consumo immediato sui social o sui magazine digitali. Il mio approccio che è stato anche quello di Roberto, al palco, alla scena è nato, si è ‘sviluppato’ con la pellicola, quando ogni scatto era prezioso.
Che cosa comportava l’analogico?
L’amata-odiata pellicola imponeva un’attenta pianificazione e soprattutto una profonda comprensione della scena e una paziente attesa del momento decisivo. La fotografia era un atto meditato, assolutamente creativo, in stretto in parallelo, quasi in dialogo con quello degli artisti in quel momento in gioco, protagonisti. Non era certo una raffica di scatti come troppo spesso avviene oggi. La facilità è contagiosa, seducente, apparentemente illimitata ma può rendere pigro e più passivo lo sguardo. Ogni immagine deve essere l’esito di un percorso, di una costruzione mentale – e in questo senso per noi non è cambiato nulla nel passaggio dall’analogico al digitale.
Quali insegnamenti consideri più preziosi?
Nella mia esperienza didattica è fondamentale insegnare a vedere, ad affinare il proprio sguardo sempre nell’assoluta consapevolezza di quanto sta avvenendo davanti a sé. C’è anche da dire che negli ultimi decenni è cambiato il rapporto con l’immagine in generale. Essa è diventata pervasiva, totalizzante. La comunicazione avviene in massima parte proprio attraverso l’uso delle immagini. L’utilizzo sempre più diffuso dell’aggettivo iconico, in ogni ambito è un esempio rivelatore. In questa voracità bulimica, compulsiva, una ricerca come la mia, diretta alla costruzione, più che alla semplice cattura, di immagini che scaturiscano da un pensiero, da una progettazione mentale, in grado di rappresentare i processi mentali creativi dell’artista in questione, rappresenta forse un’esperienza anomala, molto personale, di cui non posso, però, che andare fiera e che, nel corso del tempo, ho cercato di trasmettere ai miei allievi.
Angela Madesani
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L’articolo "A Bologna c’è in mostra la grande fotografa di teatro e musica Silvia Lelli. L’intervista" è apparso per la prima volta su Artribune®.