Carlos Drummond de Andrade: la quotidianità dell’Universo (Traduzione di Massimiliano Damaggio)
- Postato il 18 aprile 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Il mondo della poesia lusofona è in Italia praticamente sconosciuto. Ad eccezione di Pessoa, di cui si ristampano ogni mezz’ora le opere complete (con chissà quali vendite), gli altri migliaia di scrittori di poesia sono materia oscura. Il caso del brasiliano Drummond (l’accento sulla ò) è esemplare. Considerato fra i maggiori poeti di sempre di lingua portoghese e del mondo, ha avuto in Italia solo quattro “ridotte” edizioni: una di Tabucchi e tre di Fernanda Toriello. L’ultima del ’97. Davvero poco per una poesia così scintillante, in continua evoluzione, vivace e “completa” perché in essa Drummond ha toccato ogni tema possibile e immaginabile, con una varietà impressionante di registri, stili e forme che raramente si trovano, così densi ed esplosivi, tellurici, in un singolo autore.
Dalla sperimentazione del Modernismo degli anni ’30, alla poesia politica del decennio successivo; e dalla splendida poesia filosofica degli anni ’50 passando per l’erotismo, l’ironia, il sarcasmo, l’amore, nel ritratto spietato ma umanissimo (è un autore del sud, in fondo) di ogni nostra quotidianità. Raramente succede che, come in Drummond, i colori dell’universale e del quotidiano si fondano insieme per “formare un terzo tono / che chiamiamo aurora”.
M. D.
La paura
In verità abbiamo paura.
Nasciamo scuro.
Le esistenze sono poche:
postino, dittatore, soldato.
Nostro destino, incompleto.
E ci hanno educati alla paura.
Annusiamo fiori di paura.
Indossiamo vestiti di paura.
Di paura, rossi fiumi
guadiamo.
Siamo uomini soltanto
e la natura ci ha traditi.
Ci sono alberi, fabbriche,
malattie galoppanti, fami.
Ci rifugiamo nell’amore,
questo celebre sentimento,
e l’amore è mancato: pioveva,
c’era vento, faceva freddo a S. Paolo.
Faceva freddo a S. Paolo…
Nevicava.
La paura, con la sua cappa,
ci dissimula e ci culla.
Mi è rimasta la paura di te,
mio compagno moro.
Di noi, di voi: e di tutto.
Ho paura dell’onore.
Così ci crescono borghesi,
il nostro cammino: tracciato.
Perché morire insieme?
E se tutti noi vivessimo?
Vieni, armonia della paura,
vieni, oh, terrore delle strade,
spavento nella notte, timore
di acque inquinate. Stampelle
dell’uomo solo. Aiutateci,
lenti poteri del laudano.
Anche la canzone paurosa
si spezza, raggela e poi tace.
Faremo case di paura,
duri mattoni di paura,
paurosi steli, zampilli,
vie di sola calma e paura.
E con ali di prudenza,
con splendori codardi,
raggiungeremo la cima
della nostra cauta salita.
La paura, con la sua fisica,
tanto produce: carcerieri,
edifici, scrittori,
questa poesia; altre vite.
Nutriamo il maggior terrore.
I più vecchi capiscono.
Il mondo li ha fatti cristallo.
Sagge statue, addio.
Addio: andiamo avanti,
arretrando ad occhi accesi.
I nostri figli così felici…
Fedeli eredi della paura,
popolano la città.
Dopo la città, il mondo.
Dopo il mondo, le stelle,
ballando il ballo della paura.
*
Le spalle sopportano il mondo
Arriva un tempo in cui non si dice più: mio Dio.
Tempo d’assoluta depurazione.
Tempo in cui non si dice più: amore mio.
Perché l’amore è risultato inutile.
E gli occhi non piangono.
E le mani tessono solo il rude lavoro.
E il cuore è secco.
Invano donne battono alla porta, non aprirai.
Sei rimasto solo, la luce s’è spenta
ma nell’ombra i tuoi occhi risplendono enormi.
Sei tutto certezza, non sai più soffrire.
E dai tuoi amici non t’aspetti nulla.
Poco importa la vecchiaia, cos’è la vecchiaia?
Le tue spalle sopportano il mondo, e il mondo
non pesa più della mano d’un bambino.
Le guerre, la fame, le discussioni negli edifici
provano soltanto che la vita prosegue
e non tutti si sono ancora liberati.
Alcuni, trovando barbaro lo spettacolo
hanno preferito (i delicati) morire.
È giunto un tempo in cui non serve morire.
È giunto un tempo in cui la vita è un ordine.
La vita e basta, senza mistificazione.
*
La stanza in disordine
Nella curva rischiosa dei cinquanta
inciampo in quest’amore. Che dolore!
che petalo sensibile e segreto
mi tormenta e mi provoca la sintesi
del fiore che non so come sia fatto:
amore, in quint’essenza di parola,
e muto di silenzio naturale.
Più non basta tanto gesto di cogliere
e amar la nube che ambigua si stempera
in oggetto più vago della nube,
più inerme – corpo!
Corpo, verità
tanto finale, sete tanto varia
d’un cavallo liberato nel letto
che galoppa sul petto di chi ama.
*
Elegia per un tucano morto
Il sacrificio dell’ala spezza il volo
nel verde della foresta. Cittadino
sarai e mutilato
caricatura di tucano
per la curiosità dei bambini
e l’indifferenza degli adulti.
Soffrirai l’aggressione di uccelli volgari
e morto
te ne starai a terra
tra formiche e stracci.
Io ti celebro invano
come in una festa colorata ma troncata
progetto di natura interrotto
nell’azzardo di viaggi e di avventure
dall’Amazzonia all’asfalto
d’una fiera degli animali.
Io ti registro, semplicemente
sul quaderno di frustrazioni di questo mondo
poiché per questo sei venuto:
per l’inutilità di nascere.
Carlos Drummond de Andrade (1902-1987), poeta, novellista, saggista, giornalista. Fra i maggiori nomi di ogni tempo della letteratura in lingua portoghese.
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