Cari Ninni e Roberto, quel che sto per dirvi dispiacerà a entrambi: tra noi c’era una talpa
- Postato il 6 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Carissimi Ninni e Roberto, come ho fatto con Beppe Montana, vi scrivo.
Caro Roberto, eri u nostru picciriddi, la nostra mascotte: anche tu come me non eri più alla Mobile di Palermo, eppure non hai esitato di ritornare per proteggere Ninni Cassarà (a me come dirò, Ninni lo impedì). Il tuo gesto, caro Roberto, mi fa rimembrare quello che ci tramandò Platone, ossia che narrando il mito di Er, afferma che ogni uomo è causa del proprio destino. Roberto, ricordo la tua allegria: noi tutti ti volevamo un gran bene per quella empatia che emanavi in ogni istante.
Ora, mi rivolgo pure a te Ninni, perché quel che sto per dirvi dispiacerà a entrambi. Nella nostra Sezione, avevamo una serpe in seno, un traditore a soldo di Cosa nostra, ve lo dirò più in là. Caro Ninni, voglio dirti, che tu non fosti un nostro superiore, ma un amico a cui affidare le nostre vite. Tu da manager delle investigazioni, forgiasti la 5° sez. come un nucleo compatto: e come ricordò Vincenzo Ragusa, nel documentario Rai: “Ninni non andava via dall’ufficio, se l’ultima pattuglia non avesse fatto rientro”. Eri la nostra forza.
Non dimentico quando comprendesti, che non potevo indagare su due fratelli mafiosi, che mi avevano tenuto in braccio da piccolo. Un giorno, mi facesti un gran regalo, facendomi incontrare tuo zio, che non vedevo da anni, l’avevo conosciuto da bambino: era amico dei miei genitori. Caro Ninni, mi hai salvato la vita. Qualche giorno dopo la morte di Beppe, due finti poliziotti presentandosi nella trattoria di famiglia, chiesero a mia sorella, se e quando sarei arrivato per i funerali di Montana. Ebbe un dubbio (conosceva i colleghi per le cene nel nostro locale) e uscì per prendere il numero di targa, ma già si erano eclissati. Non riconobbe nessuno dalle foto segnaletiche. Il giorno prima della tua morte andasti, da un’altra mia sorella per tranquillizzarla. Tu mi impedisti di partire e con diverse telefonate, accertavi se ero a casa o in ufficio.
Ricordo l’ultima nostra telefonata: “Tranquillo, ho già il trasferimento per Genova, presto vado via”. Quella tua opposizione, affinché io non venissi per i funerali di Beppe, l’avevo motivata da pregresse ragioni di sicurezza. E invece, tu e le mie sorelle mi nascondeste la verità.
Ti ricordo un aneddoto. Una sera mi dicesti, vai a casa e vieni stanotte all’una. Giunsi in ufficio e tu e Totuccio Contorno, saliste dentro il furgone: guidai sino a Santa Maria Di Gesù. Mi fermai in una zona isolata, e voi scendeste. Vidi che Totuccio non era ammanettato e ti dissi: “E se scappa?” “No! Mi ha dato la parola d’onore”. Voi due saltaste il muro di cinta dell’agrumeto ed io mi mi nascosi dietro un cespuglio. Poi, siete ricomparsi e rientrammo alla Mobile: Contorno era nascosto in una stanza sopra la Mobile. Solo noi della sezione potevamo avvicinarlo.
Caro Ninni e Roberto, ora viene il brutto. Un pentito – killer di Brancaccio – nel 1993, mi racconta che una notte ricevette una telefonata: “prepara l’auto (rubata) e i pezzi di ferro (armi), pi fari una masculiata (sparatoria)”. Si unì ai compari e apprese, che avrebbero dovuto intercettare un furgone di colore bianco con Contorno: avevano anche il numero di targa. Per nostra fortuna, al bivio di San Ciro Maredolce, presero la strada per Ciaculli, invece di quella dove ero io. Quella notte fummo fortunati.
Ma c’è dell’altro. Ninni ricordi il mio confidente che ci fornì i nomi di mafiosi a noi sconosciuti e che fu ucciso? Nell’autunno 1989, il dr Falcone, tramite Gianni De Gennaro, mi volle accanto a lui, negli interrogatori di Francesco Marino Mannoia: si era appena pentito. Conoscevo Mannoia e il fratello Agostino. Raggiunsi Falcone a Roma e iniziamo gli interrogatori: anche in quella occasione, come il passato, e come accadde il 16/17 luglio 92 con Borsellino, il mio nome non venne trascritto nei verbali: Falcone mi affidò le intercettazioni dei telefoni in uso alla famiglia Vernengo (suocero di Mannoia) di Palermo.
Cari Ninni e Roberto, a metà novembre – e qui mi si raggelò il sangue – Mannoia ci svelò che alla Mobile di Palermo c’era un traditore: lo aveva appreso dal fratello Agostino, ma lui non l’aveva mai visto e non sapeva il nome, solo il soprannome: “Il riccio”. Falcone, basito come me, mi guardò: “Lei lo conosce?”, “Sì, lo conosce anche mia moglie”. Ninni, Mannoia quel giorno fu un fiume in piena, ci raccontò tante cose, l’omicidio del mio confidente, la raffineria di eroina e altro. La talpa – aggiunse Mannoia – aveva fatto sapere a Pietro Messicati Vitale, capo famiglia di Villabate, il nome del confidente e così fu ucciso: conservo ancora gli appunti dei racconti di Mannoia.
Un giorno il Messicati entrò nel bar di fronte casa mia, mentre stavo conversando con alcuni amici, ero disarmato: ordinò un caffè, e appena mi vide si allontanò senza sorbirlo. Infatti, a ridosso di quell’episodio e per altre minacce, fui mandato via da Palermo. Nel periodo degli interrogatori, i killer a Bagheria uccisero la mamma, la sorella e la zia di Mannoia. E quando Falcone venne, disse a Mannoia: “Non sono qui per interrogarla, ma per porgergli le mie condoglianze”. Mannoia lo guardò impassibile e rispose: “Grazie dottor Falcone! Mettiamoci a lavorare”.
Ninni, chiudo dicendoti che arrestai coi colleghi Dia, uno che partecipò al tuo omicidio e di Roberto, Giovan Battista Ferrante. Infatti, io stesso gli notificai il mandato di cattura: egli risultò essere coinvolto nelle stragi di Chinnici, Falcone e Borsellino. Roberto e Ninni, mi spiace di avervi raccontato del traditore, era doveroso farvelo sapere. Vi penso sempre.
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